I Mostri
Sono stata una bambina picchiata. Spesso e selvaggiamente da piccolissima. Man mano che crescevo le botte sono diventate meno frequenti, restavano una soluzione per le grandi occasioni. Per punizione venivo respinta, ignorata, messa in castigo, subivo privazioni. Era comunque violenza, comunque disamore. Non ho mai rimosso il ricordo della brutalità e dell'ingiustizia di mio padre, non ho mai pensato che avesse ragione.
E ho conservato la memoria dei miei dolorosi sentimenti. Sono insomma rimasta in stretta sintonia con la bambina che ero. E questo mi ha sempre aiutato a entrare in contatto con i bambini, a capirli nelle loro esigenze più semplici, a sentirmi una di loro.
Nonostante questo però ho a lungo lottato contro il desiderio di avere un bambino mio. Tra le tante ragioni del mio rifiuto c'era il timore che non avrei potuto essere una buona madre, che avrei potuto ripetere su mio figlio la violenza subita. E forse temevo che il mio bambino mi avrebbe costretto a una definitiva resa dei conti con me stessa, con la mia segreta disperazione.
E così è stato. Per nove mesi ho sentito in me la lotta tra me e la mamma del mio bimbo, tra ordini di ragioni molto diversi tra loro. Man mano che il tempo passava, la mamma ha avuto il sopravvento, ha respinto la donna che c'era prima di lei e io mi sono un po' alla volta trasformata. Il mio istinto ha preteso questa metamorfosi, lo vedo adesso con grande chiarezza. E sono certa di aver accolto il mio bambino nel miglior modo che per me fosse possibile.
Solo che quello era solo l'inizio, e io fino ad allora l'avevo invece sentito come un traguardo. Una volta accettata l'esistenza di Carlo, ora andava accolta e accudita la sua vita giorno per giorno, e nessuno mai mi aveva insegnato che cosa fare. Credo che la maggiorparte delle mamme si trovi nella solitudine in cui mi sono trovata io di fronte a un'impresa così importante. Forte, fortissima, ma insieme fragile e vulnerabile, piena di bisogni che sconcertano. Bisogni che vengono soprattutto dal passato.
Per fortuna ad aiutarmi si è fatta stada un poco alla volta una meravigliosa consapevolezza: mentre il mio bambino cresceva, mentre lo accudivo ed esaudivo i suoi bisogni, quando lo vedevo felice, insieme la bambina umiliata dentro di me sanava le sue ferite, si liberava dalla maledizione dell'incomprensione e della violenza. Le veniva offerta una seconda possibilità per crescere e divenire sé stessa. Non so dirvi la gioia, l'entusiasmo e anche la gratitudine che ho provato per il mio piccolino.
Ma non c'è stato solo questo. Ci sono stati momenti di difficoltà, emergenze in cui mi sono ritrovata impotente e disorientata, piena di paura. Momenti in cui la sintonia con il mio lato materno e con quello infantile si è interrotta. Mi sono ritrovata ad essere una povera cosa senza forze e senza speranza. Momenti terribili in cui mi sentivo messa alla prova e disperavo di farcela. E allora dentro sentivo salire una rabbia che non credevo di poter ancora custodire, un odio profondo e distruttivo. E quest'istinto violento mi spingeva contro il mio bambino prima che contro me stessa. Ci sono state delle volte in cui, invece di cullarlo con amore, l'ho scosso con forza. E poi ho pianto stringendomelo addosso. Una volta l'ho buttato sul letto, un'altra gli ho mollato una botta sul sedere. E lui di solito, il mio piccolo tesoro, ha preso queste violenze come un gioco, mi ha sorriso, ha lasciato che lo stringessi subito carica di pentimento.
Oppure ho sentito il mio sguardo farsi furioso, minacciarlo e l'ho visto coprirsi gli occhi per non vedermi. E poi cercare di abbracciarmi stretta spaventato. E tutte le volte quello che facevo non era quello che avrei voluto fare, ma qualcosa che mi premeva da dentro e che non riuscivo a controllare. Inutile forse dire che l'istante dopo mi ritrovavo devastata dal mio comportamento e provavo orrore per me stessa. Sentivo il fallimento di aver riproposto un comportamento subito e sofferto atrocemente per mio conto. Come se il tempo della mia vita fosse passato invano e tutte le esperienze e le riflessioni fatte per affrancarmi dalla mia famiglia fossero passate invano. Mi ritrovavo ancora inguaiata in un sistema di violenze fatte e subite da cui credevo di essere fuggita per sempre. I mostri erano tornati.
Non saprei come altro chiamarli questi impulsi intrisi del ricordo dell'ira di mio padre che si scatenava contro di me, dell'incapacità di mia madre di difendermi o anche solo di farmi sentire che almeno in parte non era d'accordo.
Ma perché, mi chiedevo, tornano ora che ho con me un esserino adorato che ogni giorno mi aiuta a crescere e a capire meglio come sono e come vorrei essere e che cosa voglio dalla vita? Lui che finalmente mi fa sentire quanto posso essere diversa e lontana da quel modello.
Ero così sicura di aver superato i problemi connessi al rapporto con i miei genitori! Un'impresa che avevo sostenuto per tutta la vita, e che mi aveva impegnato soprattutto negli ultimi 15 anni, da quando avevo finalmente incontrato qualcuno che mi aveva amato per quello che ero e che io avevo amato a mia volta: l'uomo con cui vivo da ormai 16 anni e che è il padre del mio bambino.
Proprio con lui avevo avuto i motivi di maggiore tensione dall'arrivo di Carlo: noi, sempre d'accordo su tutte le faccende importanti, ci eravamo trovati spesso radicalmente in contrasto, quasi il nostro bambino, invece di unirci di più, ci avesse all'opposto divisi.
Mi ci sono voluti più di 2 anni per capire quel che ci è successo. L'illuminazione me l'ha data una lettera di una paziente citata da Alice Miller ne "Il dramma del bambino dotato". Diceva che l'unica forma di amore incondizionato è quella che esiste tra figlio e madre, o genitori. Io questo non l'avevo mai capito e avevo sempre pensato che il mio amore per mio marito, e il suo per me, dovesse essere di questo tipo. E penso anche di averlo amato per lungo tempo così, finché i miei bisogni non hanno cominciato a farsi insostenibili, visto che lui giustamente mi ha sempre amata in modo "condizionato", come è normale tra adulti che si scelgono. Mi è risultato chiaro allora che avevo traferito il ruolo che i miei genitori avrebbero dovuto avere per me su di lui, e che avevo fatto dipendere dal suo amore la mia autostima e la fiducia in me stessa.
Nei momenti in cui una tensione o un contrasto contraddicevano il tipo di amore di cui io avevo bisogno, ecco che mi ritrovavo senza difese, in balia dei miei mostri, sempre pronti a riacciuffarmi al minimo cedimento, e a scatenarsi sul mio piccolo.
A ripensarci infatti le mie crisi violente sono sempre coincise con i peggiori episodi di scontro tra noi due. In quelle occasioni perdevo ogni ragion d'essere, odiavo la vita, la mia e quella che avevo generato. Non c'è molto di strano, se per tutta la vita senti di non essere amata, voluta, accettata per quello che sei. Quando l'unica persona per cui conti qualcosa ti abbandona perché non le piaci e ce l'ha con te, che cosa ti resta? Se sei una donna equilibrata e matura, puoi pensare che si tratta di un momento passeggero che non incrina i sentimenti che provi da anni, né ne smentisce la solidità. Ma se dentro hai il vuoto, perché l'amore che ti avrebbe dovuto permettere di crescere e farti forte ti è mancato da subito, con una parte di te cerchi solo conferme del tuo fallimento, e, anche se lo fai con la riposta speranza di trovare smentite, lo fai comunque spietatamente, cerchi lo scontro, non lasci scampo a nessuno.
Chissà come avrei affrontato una crisi simile senza Carlo. Forse non mi sarei salvata. Credo che con una parte di me io anzi l'abbia chiamato a salvarmi, a salvarci dalla nostra segreta disperazione. L'ho invocato perché ci aiutasse a diventare persone migliori. E' ingiusto, ma credo che non ci sia mai un sentimento disinteressato che spinge a fare un figlio. Desiderarlo risponde sempre a un nostro riposto bisogno che non ci dà tregua e che cerca risposta. I nostri bambini vengono per salvarci, ne sono convinta. Anch'io ero venuta a salvare i miei genitori, ma i loro mostri non me l'hanno permesso.
Elisa