Il caso Gelmini

La vicenda mediatica che ha riguardato la maternità, parto e puerperio della ministra dell’Istruzione Università e Ricerca Mariastella Gelmini, a partire dall’intervista rilasciata a “Io donna”, continua a rimbalzare nel web ed è diventata interessante sotto molti punti di vista, soprattutto una volta che alcune voci autorevoli si sono espresse riguardo alla sua scelta di tornare a lavorare a soli dieci giorni dal parto (avvenuto con taglio cesareo, si mormora programmato a causa della paura del parto naturale) della sua primogenita Emma Wanda.La ministra ha giustificato questa scelta, ai miei occhi tanto sconsiderata, dichiarando che solo poche mamme possono permettersi il congedo per maternità, e che è necessario fare dei sacrifici. Avrebbe forse dovuto dire più correttamente la Gelmini: “è necessario che mia figlia si sacrifichi per il bene della mia carriera lavorativa”, senza contare poi il fatto che l’assenza dal lavoro nei tre mesi successivi al parto non è un diritto ma un dovere, posto che giustamente questo periodo prende il nome di “maternità obbligatoria”, come si legge sul sito dell’INPS che ha esteso il periodo di maternità obbligatoria (due mesi prima e tre dopo il parto) anche alle lavoratrici autonome e a progetto, nonché ai genitori adottivi senza alcun limite riguardo all’età del bambino adottato.

Cercando i commenti online sulla vicenda Gelmini, mi sono imbattuta nel blog di Daria Bignardi, che titola il suo intervento: “Ma è davvero «un privilegio» stare a casa dopo il parto?” e che riporto integralmente:

Il ministro Gelmini torna al lavoro con la figlia neonata: non fate lo stesso errore.

Stare a casa dopo il parto è un privilegio», ha detto al settimanale Io donna il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, 36 anni, neomadre, comunicando che sta per tornare a Roma portando con sé la figlia di poche settimane. «Bisogna accettare di fare dei sacrifici», ha aggiunto.

Io penso che il ministro stia facendo lo stesso errore che fanno moltissime primipare attempate, o meno attempate, e che ho fatto anch’io col primo figlio.

Ci si sente così forti, con un neonato tra le braccia, che si crede di poter fare tutto. Se si fa un lavoro che piace, se si teme che l’assenza possa intralciare (o distruggere) la vita professionale, si cerca di fare tutto insieme. Ci si convince che si può, e si deve. A volte, si è costrette a farlo anche se il lavoro non piace, per non perderlo. Ma privarsi, e privare i nostri figli neonati, di un rapporto esclusivo e di ritmi naturali è un sacrificio che non dovremmo mai fare, e che nella maggioranza dei casi rimpiangeremo per sempre, perché la loro prima infanzia dura poco, e non ritorna.

Privilegio stare a casa? Credo che il privilegio sia tornare subito al lavoro, semmai. Ma è un finto privilegio.

Ci illudiamo, in quanto organizzate o benestanti, di poter fare tutto, ma è un’illusione destinata a sgretolarsi man mano che i figli crescono. Arriverà per tutte, o quasi, il momento in cui si capirà che il prezzo del fare tutto è assurdo e crudele. Che le superdonne non esistono, ma esistono solo madri stanche e logorate.

In nome di che cosa, poi? Di una supposta gratificazione personale? È la truffa del secolo, questa illusione. Ci convincono – e ci lasciamo convincere perché a volte ci fa comodo, o perché siamo sole di fronte alle nostre paure –che la qualità del tempo che passiamo coi figli sia più importante della quantità.

Niente è più sbagliato di questa illusione. Quando sento dire frasi come: «Il lavoro mi realizza e credo di comunicare la mia soddisfazione ai figli, nel poco tempo che passo con loro», rabbrividisco e penso: «Poverina. Te ne accorgerai». Staccarsi prematuramente dai figli, illudersi che ce ne stiamo occupando anche se siamo lontane, è una scelta rischiosa. Per crescere sicuri e fiduciosi nel prossimo, i bambini hanno bisogno proprio di noi: non c’è tata, nonna, asilo nido e nemmeno padre che possa sostituire lo sguardo e l’abbraccio della mamma. Più tempo stiamo insieme e meglio è, per noi e per loro.

Suona retorico? Anche a me. Retorico, scomodo e irrealizzabile, visto che ormai lavoriamo tutte, con minor o maggior soddisfazione. Ma temo sia vero. E benedico la legge che tutela, un minimo, le madri, e le obbliga a stare coi figli almeno cinque mesi. «Un baluardo contro le richieste della modernità, contro lo strapotere dell’efficienza, del denaro e del successo», ha detto la psicologa Vegetti Finzi. Parole sante. Donne che fate figli, non fatevi fregare.

A questo punto, incuriosita, ho cercato il commento di Silvia Vegetti Finzi (che conosco solo di nome, non avendo mai letto alcun suo testo), e mi sono subito ritrovata a confrontarlo con quella di un’altra figura illustre tuttavia a me completamente sconosciuta, la psichiatra Federica Mormando.

Prima di riportarvi le riflessioni di queste due professioniste della psicologia infantile, vi presento le mie brevi osservazioni, partendo da una necessaria premessa iniziale.

Premessa

Il nostro pensiero, credo siamo tutti d’accordo, dipende in massima parte dal nostro vissuto e dall’elaborazione che nel tempo siamo o non siamo riusciti a farne. Quindi, esperti o meno, i nostri punti di vista dipendono, oltre che dall’istruzione, dalle letture, dagli incontri che faremo durante l’esistenza e anche, o forse sarebbe il caso di dire soprattutto – millerianamente parlando (grazie Vito) – dalla nostra infanzia.

Visto in questi termini, anche il parere del più illustre esperto nel campo della psicologia o della psicopatologia va preso “con le pinze”, dato che il suo vissuto infantile, ancor più degli studi e delle esperienze personali e lavorative, incide sul suo punto di vista, soprattutto quando si parla di un campo, quale quello della psicologia, dove si lavora in modo empirico e soggettivo piuttosto che scientificamente. Per esemplificare questo concetto, non posso esimermi dall’illustrare cos’è un esperimento scientifico.

L’esperimento scientifico si serve del metodo sperimentale, vale a dire di: raccolta di informazioni, osservazione del fenomeno, scelta di parametri misurativi, formulazione di ipotesi per spiegare il fenomeno, formulazione di una teoria che spieghi detto fenomeno e infine, ma cosa più importante di tutte, riproduzione di uguali esperimenti che diano lo stesso risultato (o che confutino il modello teorico ipotizzato).

Già all’interno della scienza, ad esempio entrando nell’ambito della fisica quantistica, non è possibile giungere durante un esperimento scientifico a un risultato univoco, in quanto l’osservatore influenza l’osservato attraverso la semplice azione dell’osservare.

Nel campo della psicologia, tutto ciò è difficilmente realizzabile, in quanto la base di partenza, sia “l’osservato” ossia il soggetto su cui applicare l’esperimento (dal punto di vista scientifico), sia “l’osservatore” cioè lo specialista che analizza il fenomeno, varia ad ogni singola osservazione: gli esseri umani infatti sono unici e irripetibili (geneticamente, per esperienze pre e post nascita, per stile educativo dei genitori o delle figure di riferimento, per storia famigliare, ecc.), quindi possiamo concludere che in ambito psicologico anche il parere del personaggio più illustre è solo un punto di vista.

È partendo da questa premessa che vi chiedo di seguire la mia analisi, nel caso specifico, dell’opinione delle due esperte interpellate dai giornalisti, Silvia Vegetti Finzi e Federica Mormando, le quali, commentando la scelta lavorativa della ministra Gelmini, hanno espresso due pareri agli antipodi.

La prima ha così commentato: http://archiviostorico.corriere.it/2010/maggio/01/Congedo_importante_per... da cui in particolare estrapolo: “Nei primi mesi di vita il nuovo nato necessita della totale dedizione di una figura materna. Come tutti i cuccioli richiede prossimità, abbracci, contatti di pelle. Ma ha bisogno anche di essere accolto da un grembo psichico. Per svolgere questo compito la mamma è la persona più adeguata in quanto è stata preparata, durante la gestazione, da una sintonia profonda che la rende l'oggetto privilegiato dell'attaccamento filiale. Sostituirla è sempre possibile ma, se il distacco è prematuro, si mettono a rischio la sicurezza di base e la fiducia nell'altro, fondamenta dello sviluppo successivo. Dal momento che ci si è assunti la responsabilità di mettere al mondo un bambino, il suo benessere costituisce una priorità rispetto a ogni altro obiettivo.”

Dal mio modesto e soggettivo punto di vista (da mamma che ha usufruito di tutta la maternità obbligatoria e facoltativa per stare con suo figlio), parole logiche e piene di buon senso.

Dall’altra parte, la prof.ssa Mormando così si esprime: http://archiviostorico.corriere.it/2010/maggio/01/Donne_chiuse_tra_muri_... da cui in particolare estrapolo: “I bambini non hanno bisogno di mamma-sempre nei primi mesi di vita. Anzi, proprio l'onnipresenza materna oltre che rendere dipendente la madre dal marito e ridurne il mondo a muri e pannolini, favorendo le depressioni, rende più complesso e sovente difficile il rapporto madre figlio. Si crea un'esclusiva dipendenza reciproca dura da sciogliere, che spesso rende stressante ogni separazione, dalla scuola materna alla notte dai nonni a una serata a due della coppia. E il figlioletto si abitua a essere il centro del mondo. Il privilegio è poter tornare a lavorare poco dopo il parto, lasciando che il bambino cresca da subito con più figure di riferimento e modificando la propria vita senza lederne la parte lavorativa né mettere a rischio l' intimità della coppia.

Queste parole mi hanno fatto strabuzzare gli occhi. E mi sono subito chiesta come potesse un’esperta pronunciarsi in modo così insensibile delle esigenze di un neonato, che si riassumono in un concetto semplice e di immediata comprensione: contatto continuo con la madre, come avviene per ogni cucciolo di mammifero, in particolare per i primati che sono gli animali geneticamente più simili all’uomo (basti pensare che con i gorilla condividiamo il 98% del DNA).

Dopo una brevissima ricerca, mi si è squarciato il velo e la cruda verità mi è balzata agli occhi nella sua lapalissiana limpidezza. Una lunga intervista, quattro pagine, apparse su Il Giornale nel 2007.

Dall’intervista, dalla quale si esce come minimo turbati per la terribile infanzia della prof.ssa Mormando, veniamo a conscenza di fatti davvero incredibili: “La madre, Vittoria Sorge, che lei definisce «una persona orribile, cattivissima, distruttiva, stupida, peggio che isterica e molto violenta», la teneva segregata in casa. […]

Ma lei non raccontava a suo padre delle angherie subite in casa?

«I bambini maltrattati non sanno nemmeno che esiste la possibilità di parlare con qualcuno. Mia madre era una pazza furiosa, mi tirava addosso gli scaffali. Sono viva per miracolo. Avevo 5 anni quando cominciai a pensare: ce la faccio ad andar via di casa? No. A 6 anni: ce la faccio ad andar via di casa? No».

Così ogni anno.

«Ogni giorno, ogni minuto. A 14 anni i miei si divisero e io dovetti rimanere con lei. A 19 mi risposi: sì, ce la faccio. E me ne andai via per sempre. Non la rividi mai più».”

Come avrebbe potuto altrimenti commentare la scelta della Gelmini di tornare al lavoro dopo 10 giorni dal parto? La sua tremenda infanzia ha diretto le sue parole e i suoi pensieri, e l’esperta psichiatra non poteva non consigliare alla ministra di dare la figlia neonata in consegna ad altre figure di riferimento. Federica Mormando si mette nei panni di quella bimba, e con un’esperienza alle spalle come la sua, con quella madre atroce che l’ha fatta vivere segregata in casa sino alla quinta elementare, non può che consigliare l’affidamento della piccola Emma ad altri (chiunque altro) che non sia la madre.

Ma vediamo a questo punto, a riprova, com’è stata l’infanzia di Silvia Vegetti Finzi, da quello che lei stessa racconta sul suo sito:

La mia infanzia non è stata facile: trascorsa negli anni della guerra, con i genitori lontani, non mi è tuttavia mai mancata la voglia di giocare e di fantasticare. Quello spazio di libertà mi ha aiutata a sopravvivere e ora mi serve per comprendere i più piccoli, per entrare nel loro mondo interiore e coglierne le più segrete vibrazioni.

Il mio interesse per i bambini è nato dal fatto che sono cresciuta in una grande famiglia, con fratelli e cugini, e ho dovuto ben presto occuparmi dei più piccoli. Inoltre ho avuto due figli e innumerevoli allievi. Senza contare che la materia di cui mi occupo, la psicologia, ha come tema fondamentale l'età evolutiva. Mi trovo molto bene con i bambini, ai quali mi avvicino con lo stesso rispetto che nutro per gli adulti. Li considero persone da prendere sul serio, senza mai utilizzare la superiorità dell'adulto per prevaricarli. Neppure a fin di bene.

http://www.silviavegettifinzi.net/vegetti/bambini.html

Non un’infanzia facile dunque, ma neppure solitaria. Fatta di doveri, ma anche di spazio per liberare la fantasia, e probabilmente con qualche testimone compassionevole al suo fianco. Dice che durante la guerra i suoi genitori erano lontani, e in questa mancanza possiamo trovare il punto di partenza del suo pensiero sul “caso Gelmini”, nel consigliare alla ministra di rinunciare per qualche mese alla carriera, così da costruire quella base sicura di cui parla Bowlby, e che la Vegetti Finzi cita a proposito.

Quale che sia la vostra opinione su questa vicenda, vorrei invitarvi sempre e comunque a tenere conto del fatto che il parere di qualunque esperto va preso con le pinze, proprio perché di un parere si tratta e non di una verità assoluta ed immutabile. Magari senza tralasciare di buttare un occhio al vissuto dell’opinionista di turno.

Info
Scritto da: 
Chiara Pagliarini, NTIS