A proposito del perdono

L’esperienza liberatoria della dolorosa verità

Il bambino maltrattato e trascurato è completamente solo nelle tenebre del suo smarrimento e della sua angoscia. Circondato di arroganza e odio, spogliato dei suoi diritti e della parola, vittima nel suo amore e nella sua fiducia, schernito nel suo dolore, disprezzato, umiliato, senza guida, senza alcun sostegno, cieco, senza difesa, e completamente lasciato alla mercè dell’adulto ignorante.

Tutto il suo essere vorrebbe urlare la sua collera, esprimere la sua rivolta e chiamare aiuto. Ma in verità non ne ha il diritto. Tutte le reazioni normali, previste dalla natura per la nostra sopravvivenza, rimangono bloccate. Infatti, a meno che non giunga un testimone in suo soccorso, queste reazioni naturali non sortiranno altro effetto che di accrescere e prolungare la sua sofferenza, ossia, per concludere, di mettere la sua vita in pericolo.

Così bisogna che egli reprima questo sano impulso di protestare contro un trattamento inumano. Il bambino tenta di cancellare ed estinguere completamente dalla sua memoria tutto ciò che gli è stato inflitto, al fine di bandire dalla propria coscienza la sua bruciante rivolta, la collera, la paura, l’intollerabile sofferenza – così spera – per sempre. Rimane allora il suo senso di colpa – anche se non è stato obbligato a baciare la mano che l’ha picchiato e a chiedere scusa.

Cosa che, purtroppo, accade più spesso di quanto generalmente si creda. Il fanciullo maltrattato continua tuttavia a vivere nei sopravvissuti a tali torture, che hanno fatto ricorso ad una rimozione totale: nelle tenebre dell’angoscia, della repressione, della minaccia. Quando tutti i tentativi per condurre l’adulto ad ascoltare la propria storia hanno fallito, questa cerca di farsi sentire attraverso il linguaggio dei sintomi, attraverso la tossicodipendenza, la psicosi, la delinquenza.

Questo bambino, diventato adulto, comincia a sospettare l’origine delle sue sofferenze, e chiede agli specialisti se queste non potrebbero essere messe in relazione con la sua infanzia; nella maggior parte dei casi gli viene assicurato che non c’entrano niente. O, se viene confermata la sua intuizione, gli si spiega che deve imparare a perdonare, che è la sua attitudine rancorosa che lo rende malato.

In questi gruppi molto conosciuti, in cui viene proposta una terapia alle persone dipendenti e ai loro parenti, la parola d’ordine è sempre: potrai guarire solamente quando avrai perdonato ai tuoi genitori tutto quello che ti hanno fatto. Anche se erano due alcolizzati, se hanno abusato di te, ti hanno picchiato, gettato in una disperazione totale, sottomesso a delle esigenze al di sopra delle tue forze, sfruttato – devi perdonare loro tutto, altrimenti non potrai guarire.

Molti programmi, cosiddetti terapeutici, hanno per principio di imparare in un primo momento ad esprimere i propri sentimenti e, contemporaneamente, a tentare di vedere ciò che si è vissuto nell’infanzia. Ma, in seguito, bisogna attenersi al “lavoro del perdono”, che si pretende necessario alla guarigione.

Molti giovani pazienti, colpiti dall’AIDS o dalla tossicodipendenza, muoiono mentre si stanno dedicando al compito di perdonare tutto, e ignorano che devono morire per conservare intatta la rimozione della loro infanzia.

La maggior parte dei terapeuti teme questa verità. Subiscono l’influenza delle interpretazioni distruttive delle religioni occidentali e orientali, e predicano il perdono a coloro che sono stati bambini maltrattati. In questo modo, creano un nuovo circolo vizioso per coloro che, durante i loro primi anni di vita, sono stati costretti all’interno del circolo vizioso della pedagogia. E chiamano questo “terapia”. Così facendo, li conducono in una trappola senza ritorno, la stessa trappola che un tempo ha reso impossibili le loro naturali proteste e provocato così la loro malattia. Dato che i terapeuti, impantanati all’interno del sistema pedagogico, non possono aiutare il paziente a liberarsi delle conseguenze dei traumi subiti, gli offrono in cambio la morale tradizionale.

In questi ultimi anni ho ricevuto dagli Stati Uniti molti libri su diversi metodi di terapia, scritti da autori a me sconosciuti. Tutti questi autori, senza eccezione, postulano come un’evidenza che il perdono è indispensabile al “successo” della terapia. Questo principio sembra a tutti così naturale che non vi si riflette mai più da vicino, mentre sarebbe davvero urgente farlo. Poiché il perdono non sopprime l’odio latente e l’odio di sé stessi, ma li nasconde in modo molto pericoloso.

Conosco il caso di una donna la cui madre era stata vittima, nella sua infanzia, di abusi sessuali da parte di suo padre e di suo fratello. Cresciuta in convento, questa madre vi aveva appreso “il beneficio del perdono”, e rispettava suo padre e suo fratello senza una goccia di amarezza. Quando sua figlia era ancora molto piccola, la lasciava spesso nelle mani di suo nipote di tredici anni. La sera andava al cinema con suo marito, l’anima in pace, mentre il giovane baby sitter si soddisfaceva sessualmente con il corpicino della bambina.

Quando quest’ultima, cercando aiuto, ha intrapreso una psicanalisi, l’analista le ha dichiarato che non doveva muovere dei rimproveri a sua madre. Questa non aveva avuto alcuna cattiva intenzione, e ignorava totalmente che il baby sitter abusava regolarmente della sua bambina. Questa madre, infatti, non sospettava per nulla, sembra, ciò che succedeva. Quando la figlia ha iniziato a presentare dei disordini alimentari, ha consultato, inquieta, molti medici. Le assicuravano che dipendeva “dalla dentizione”. Tutti gli ingranaggi del macchinario del perdono hanno quindi funzionato quasi perfettamente – ma a spese della verità e, anche, infine, della vita di tutti gli interessati.

Nel suo libro “The obsidian mirror: an adult healing from incest” [non tradotto in italiano] (Seal Press, 1988), Louise Wisechild descrive com’è riuscita nel corso della sua formazione di kinesiterapeuta a decifrare, con l’aiuto dell’espressione corporea e dei protocolli scritti, i messaggi e i segnali del suo corpo, a risentirli, e così a liberare progressivamente la sua infanzia dalla rimozione. A poco a poco ha scoperto in tutti i dettagli la storia che aveva totalmente bandito dalla sua coscienza: all’età di quattro anni era stata vittima di abuso sessuale da parte di suo nonno, un anno più tardi uno zio perverso le aveva inflitto delle sevizie gravissime e, per finire, il suo patrigno l’aveva violentata. Ma dato che questa presa di coscienza non aveva ancora permesso la dissoluzione degli schemi autodistruttivi, cercò una terapeuta capace di accompagnarla nelle tappe seguenti di questa terribile esplorazione. Senza preoccuparsi del martirio realmente subito dalla sua paziente, la terapeuta un giorno le dichiarò: “Se non perdona sua madre, non potrà mai perdonare sé stessa”. Invece di aiutare la paziente a liberarsi dei sentimenti di colpevolezza di cui era stata caricata – ruolo che dovrebbe svolgere la terapia – le si imponeva una esigenza supplementare, atta a rinforzare questi sentimenti di colpevolezza. Perdonare, atto religioso, non fa sparire gli schemi autodistruttivi. Perché questa donna, che si era occupata della madre per trent’anni, avrebbe dovuto perdonarle i suoi crimini, quando questa madre non aveva mai tentato, per quanto poco, di capire ciò che aveva fatto a sua figlia? Un giorno in cui la bambina, pietrificata di paura e d’orrore, giaceva schiacciata sotto al pesante corpo di suo zio, aveva visto nello specchio sua madre giungere sulla soglia della porta. Sperava in un soccorso, ma la madre girò sui tacchi e sparì. Diventata adulta, Louise sentì sua madre dire che solo la presenza dei figli le aveva permesso di superare la paura che le ispirava quest’uomo. Quando Louise volle parlarle della violenza subita dal patrigno, la madre scrisse alla figlia che non voleva mai più rivederla. Mi sembra incomprensibile che, anche in un caso così grave, l’assurdità di esigere il perdono non salti agli occhi, e che non ci si renda conto che ciò porta irrimediabilmente al fallimento di qualsiasi tentativo di terapia. Che cosa ci si può aspettare, tranne che tranquillizzare il terapeuta?

Questo esempio mostra l’entità dei danni che può causare una sola frase, un’affermazione completamente falsa, perturbatrice ma ben ancorata nella tradizione – proprio perché ci è così familiare fin dalla nostra più tenera infanzia. Si tratta di un grave abuso di potere, che serve ai terapeuti a scongiurare i loro sentimenti di impotenza e la loro angoscia. Il paziente è convinto che per enunciarla il terapeuta si basi sulla certezza dell’esperienza, e ha fede nell’autorità. Non sa – come potrebbe scoprirlo? – che questa affermazione esprime solo la paura che ha un bambino maltrattato, in questo caso il terapeuta, dei suoi genitori. Lo può tanto meno perché, per la precisione, questa esortazione al perdono muove in lui delle vecchie angosce che lo obbligano a credere al detentore dell’autorità. Come potrebbe il paziente, in queste condizioni, liberarsi dei suoi sensi di colpa? Sono letteralmente impressi in lui.

La “terapia” che predica il perdono svela in questo modo la sua posizione educatrice. E ciò rivela ugualmente l’impotenza dei predicatori del perdono, che stranamente chiamano sé stessi terapeuti ma dovrebbero, più correttamente, definirsi preti. Il risultato, ad ogni buon conto, è la perpetuazione della cecità acquisita nell’infanzia, che una vera e propria terapia avrebbe potuto dissipare. Il paziente continua a sentirsi dire, fino a che lo crede – e il terapeuta allora è tranquillizzato: “Il tuo odio ti rende malato; per guarire, devi perdonare e dimenticare”. Ora, non è l’odio, ma proprio questa morale così insistentemente consigliata che, durante la sua infanzia, ha gettato il paziente in questa disperazione muta e l’ha infine reso malato, stroncando i suoi sentimenti e i suoi bisogni.

L’esortazione al perdono non ha niente a che vedere con una terapia efficace, né con la vita. E ha sbarrato a molte persone che cercavano aiuto, il cammino della liberazione. I terapeuti sono sotto l’influsso della loro stessa paura, la paura del bambino maltrattato che teme la vendetta dei suoi genitori, e si lascia guidare dalla speranza che, malgrado tutto, una buona condotta gli permetterà un giorno o l’altro di guadagnare l’amore dei suoi gentiori. I pazienti pagano a un prezzo elevato questa speranza illusoria dei terapeuti: ricevendo, anziché la “terapia”, delle informazioni false, non possono trovare il cammino della liberazione. Rifiutandomi di perdonare, io rinuncio a tutte le illusioni. Certo, un bambino maltrattato non può sopravvivere senza le sue illusioni – ma un terapeuta adulto deve mostrarsene capace. Da quel momento, il suo paziente potrà dire: “Perché dovrei perdonare, se nessuno me lo chiede? I miei genitori si rifiutano di sapere, di comprendere ciò che mi hanno inflitto. Perché dunque dovrei continuare a sforzarmi, per esempio con l’aiuto della psicanalisi o dell’analisi transazionale, di capire i miei genitori e la loro infanzia, e di perdonarli? A cosa può servire tutto ciò? Chi ne sarà aiutato? Tutto questo non aiuta i miei genitori a vedere la verità, e per quanto mi riguarda, ciò mi impedisce di vivere i sentimenti che mi aprirebbero l’accesso alla verità. Sotto la campana di vero del perdono, i sentimenti non hanno né il diritto né la possibilità di esprimersi liberamente.” Simili riflessioni putroppo non sono in uso tra le migliaia di terapeuti, in cui il perdono ha forza di legge. La sola concessione che si fa è di stabilire una distinzione tra vero e falso perdono. Ma il preteso vero “perdono” in ogni caso rimane considerato come l’obiettivo terapeutico, e non è mai messo in discussione.

Ho chiesto a molti terapeuti perché ritengono il perdono necessario alla guarigione, ma non ho mai ricevuto risposta. All’apparenza, non avevano ancora mai messo in discussione questo imperativo che giudicavano come proveniente da sé, alla stessa maniera dei cattivi trattamenti conosciuti nella loro infanzia. Non posso immaginare che una società che non maltratta i suoi bambini, ma al contrario li rispetta e li protegge con amore, svilupperebbe l’ideologia del perdono di inconcepibili crudeltà. Questa ideologia è indissolubilmente legata al comandamento: “Tu non ti renderai conto di niente”, così come alla ripetizione del maltrattamento alla generazione seguente, che paga un caro prezzo per il perdono al quale sono costretti i suoi genitori. La paura della vendetta dei genitori impregna la nostra “morale”.

Solo una terapia di graduale apertura, passo a passo, nei confronti della propria verità, senza mire educative né appello a una falsa morale, potrà mettere fine a questa funesta ideologia. Poiché è solo con l’aiuto della propria verità che gli uomini e le donne che sono sopravvissuti ai maltrattamenti potranno liberarsi delle loro conseguenze. Lo sforzo richiesto dal perdono li allontana dalla loro verità. Una terapia efficace non può essere raggiunta se il meccanismo della pedagogia continua ad operare. Essa deve condurre il paziente ad accedere ai suoi sentimenti, e questo lungo tutta la sua vita, perché solo questo accesso gli permetterà di trovare la strada e di essere autenticamente sé stesso. Le domande moralizzatrici non possono che sbarrare questo accesso.

A partire dal momento in cui l’adulto accetta di vedere che ha commesso una colpa e lo riconosce, il bambino può scusarlo. Ma l’esortazione al perdono che incontro dovunque senza alcun dubbio mette in pericolo la terapia, anche se è espressione della nostra cultura. I maltrattamenti inflitti ai bambini sono all’ordine del giorno e questi errori vengono banalizzati dalla maggior parte degli adulti. Il perdono dal mio punto di vista è una “para-realtà”, un mezzo per preservarsene. Ha delle conseguenze negative, e non solo per l’individuo: porta infatti a mascherare opinioni e comportamenti distruttivi. Si chiude il sipario, e gli avvenimenti non sono più identificabili. La possibilità di cambiare il corso delle cose dipende dall’esistenza di un numero sufficiente di testimoni lucidi, capaci di tendere un “cordone di sicurezza” alla presa di coscienza crescente dei bambini maltrattati, così che non cadano nelle tenebre dell’oblio – da cui risorgerebbero più tardi sotto forma di malatti o di criminali. Rifugiandosi all’interno della “rete” dei testimoni lucidi, questi bambini possono divenire degli adulti coscienti che vivranno “con” e non “contro” il loro passato e che, per questa ragione, potranno creare un futuro più umano.

È stato scientificamente dimostrato che piangere, quando si soffre, si è tristi o angosciati, non consiste solo nel versare delle lacrime, ma si accompagna alla secrezione dell’ormone dello stress, che provoca una distensione generale dell’organismo. Non equivale certo a una terapia, ma sarebbe importante che i medici, nei loro trattamenti, prendessero in considerazione questo fenomeno. Orbene, fino ad ora avviene esattamente l’opposto. Si prescrivono dei tranquillanti affinché il paziente si calmi e soprattutto non abbia accesso alla fonte dei suoi sintomi. Il problema della pedagogia medica risiede principalmente, a mio avviso, nel fatto che la maggior parte dei responsabili, istituzioni e professionisti, non vogliono a nessun costo sapere perché ci si ammala. Risultato di questo errore: innumerevoli malati cronici che “soggiornano” per decine d’anni negli ospedali e nelle prigioni, mentre lo Stato spende miliardi.

Tutto ciò può conservare un segreto: gli interessati ad ogni costo non devono sapere che li si potrebbe aiutare a comprendere il linguaggio della loro infanzia al fine di migliorare veramente, se non addirittura abolire, le loro sofferenze.

Se si avesse il coraggio di controntarsi con la realtà della rimozione dei maltrattamenti inflitti ai bambini e delle sue conseguenze, ciò sarebbe possibile. Ma nella letteratura specializzata in questo soggetto non c’è traccia di questo coraggio. Al contrario, sono onnipresenti gli appelli alla buona volontà, ogni sorta di consiglio non verificabile e che non conduce a nulla, e soprattutto le prediche sulla necessità di perdonare le crudeltà subite nell’infanzia. Se tutto ciò non serve a niente, ebbene, lo Stato pagherà, a vita, per le cure e per mantenere gli invalidi e i malati cronici – che avrebbero potuto guarire grazie all’aiuto della verità.

Quindi è già dimostrato che la rimozione, così come fu necessaria per il bambino, non deve essere fatalmente il destino dell’adulto. Il bambino piccolo è completamente dipendente dai genitori. La sua fiducia in loro, il suo bisogno di amare ed essere amato sono illimitati. Approfittarsi di questa dipendenza, abusare di questa fiducia, tradire e farsi beffe di questo amore, e agghindare tutto questo col nome di educazione, è un crimine. È un crimine che viene commesso ogni giorno, ad ogni ora, per conformismo, ignoranza o rifiuto di rinunciare all’uno o all’altra. Il fatto di venire commesso il più delle volte incoscientemente purtroppo non attenua le sue funeste conseguenze: il corpo del bambino maltrattato ha registrato la verità, ma la sua coscienza si rifiuta di ammetterlo. Se il trauma fosse stato vissuto coscientemente, il bambino ne sarebbe morto. Così il suo organismo si protegge, con la rimozione, dal dolore e dalle circostanze che l’accompagnano. Ne rimane il ciclo infernale della rimozione: la storia vera, repressa, seppellita nel corpo, provoca dei sintomi così da essere infine riconosciuta e presa sul serio. Ma, come nell’infanzia, la coscienza si chiude, poiché ha appreso durante quel periodo la funzione salvifica della rimozione e, oggi, nessuno la informa che per un adulto la conoscenza non è mortale e che, al contrario, la verità l’aiuterebbe a ritrovare la salute.

La pericolosa parola d’ordine della “pedagogia nera” – “tu non devi renderti conto di ciò che ti è stato inflitto” – riappare nei trattamenti dei medici, psichiatri e terapeuti, i quali, a rincalzo di medicine e teorie, fanno del loro meglio per influire sulla memoria del paziente affinché, soprattutto, egli non scopra mai le radici dei suoi mali – radici che risiedono quasi esclusivamente nei maltrattamenti (fisici e morali) e nelle carenze dell’infanzia.

Oggi sappiamo che l’AIDS e il cancro portano ad un drastico collasso del sistema immunitario, e questa “rassegnazione” fisica precede la mancanza di speranza delle persone malate. Per quanto possa sembrare incredibile, difficilmente si riesce a trarre la conclusione che queste scoperte suggeriscono: l’uomo può riguardagnare la speranza se i suoi segnali di angoscia vengono infine ascoltati. Se la sua storia nascosta, rifiutata, giunge infine alla coscienza, anche il suo sistema immunitario può rigenerarsi. Ma chi lo aiuterà in questo compito, se tutti i “soccorritori” hanno paura della loro propria storia? E dunque noi continuiamo a giocare tutti insieme – pazienti, medici, apparati burocratici – a mosca cieca perché ben pochi di noi hanno imparato, attraverso l’esperienza, che l’accesso emozionale alla verità è la condicio sine qua non della guarigione. A lungo andare l’uomo può funzionare, anche fisicamente, solo avendo coscienza della propria verità. La morale tradizionale e menzognera, le interpretazioni distruttive delle religioni, i malintesi nell’educazione fanno ostacolo a questa esperienza, impediscono di osarla. Inoltre, l’industria farmaceutica approfitta incontestabilmente della nostra pusillanimità e della nostra cecità. Ma non abbiamo che una sola via, e un solo corpo che rifiuta di lasciarsi raccontare bugie, ed esige assolutamente che non ci prendiamo gioco di lui. Se un giorno il segreto della nostra infanzia dovesse cessare di essere un segreto, lo Stato potrebbe risparmiare le somme destinate agli ospedali, alle cliniche psichiatriche e alle prigioni per mantenere la cecità degli uomini. Pensare che questo venga fatto coscientemente sembra quasi mostruoso. Quei soldi potrebbero venire impiegati per aiutare degli esseri umani a levare la rimozione che li rende malati, a identificare degli avvenimenti della loro infanzia e ad abolirne le conseguenze, al fine di poter condurre una vita cosciente e responsabile. Degli uomini e delle donne che sappiano e risentano ciò che è successo durante la loro infanzia non cercheranno mai di nuocere a sé stessi o agli altri. Cercheranno di proteggere la vita, e non di distruggerla. Poiché vivere e proteggere la vita è la nostra vocazione biologica.

Noi non abbiamo motivo, putroppo, di essere orgogliosi della nostra tradizione di maltrattamenti dei bambini e di infanticidi imputabili al nostro cinismo e alla nostra indifferenza verso la sofferenza dei bambini, come ho cercato di mostrare in questo libro attraverso diversi esempi. Questa tradizione è ugualmente imputabile al nostro sbaglio di vedere che, attraverso questa crudeltà ratificata dalla tradizione, distruggiamo le generazioni seguenti e a questo risultato dell’umanità. Ecco perché è tempo di osare di basarci sui fatti e sulla nostra esperienza dei fatti, e di rifiutare questa eredità devastante – anche se, finora, ha brillato di mille fuochi. 

Info
Scritto da: 
Alice Miller
Traduzione: 
Chiara Pagliarini

© 2003, per gentile concessione.