Lettera aperta a chi decide il destino dei bambini

Prefazione di NTIS

Quando abbiamo pubblicato lo stralcio del libro della dott.ssa Claudia Artoni Schlesinger, accennammo al fatto che avremmo anche pubblicato il capitolo sedicesimo del suo libro “Adozione e oltre”, dal titolo “Lettera aperta a chi decide il destino dei bambini”, scritto in collaborazione con la Dott.ssa Dina Vallino.

l capitolo mi colpì particolarmente già al momento della prima lettura ma di recente, durante la trasmissione “Prima pagina” di Radio Tre, ho avuto modo di ascoltare la telefonata di un donna che possiamo definire, in modo più che virgolettato, una “professionista” dell’affido. 
La donna, con equilibrio e pacatezza ammirevoli, ha esposto un caso simile a quelli descritti nel capitolo che ora pubblichiamo sul nostro sito. 

La storia in breve è la seguente: lei e il marito, genitori di 5 figli naturali, ricevono in affidamento una bambina, collocata (concordo per la freddezza e durezza burocratica del termine con le D.sse Vallino e Artoni) presso la loro famiglia in attesa di adozione, come già successo in precedenza con altri bambini. Mi scuso con quanti leggono se non ricordo esattamente l’età della piccola, che però credo fosse abbondantemente al di sotto dei due anni. La famiglia affidataria, dopo alcune settimane, sollecita gli organi competenti affinché trovino una soluzione definitiva per la piccola senza far passare troppo tempo, per non compromettere il fragile equilibrio psichico della bambina già fortemente provato dagli avvenimenti della sua brevissima vita. 

Nonostante le sollecitazioni i mesi passano, creando inevitabilmente quel fortissimo, naturale attaccamento fra la piccola e il nucleo familiare affidatario e rinsaldando un legame che, per effetto di una crudele e miope legislazione, alla fine avrebbe certamente dovuto essere spezzato. La logica del legislatore - ed è questa la cosa che più mi ha colpito - considera i bambini, specie se molto piccoli, come se fossero incapaci di provare sentimenti, o come se questi loro sentimenti avessero comunque un valore inferiore a quelli di un adulto e quindi non fossero degni di essere presi in considerazione. Inoltre la legislazione parte da un assurdo, oramai smentito da evidenze scientifiche inconfutabili, che è quello del considerare possibile una recisione netta fra il passato del bambino adottato e il suo presente. Per effetto di tali sbagliatissimi presupposti, si creano disagi personali (che si ripercuotono anche sulla società) difficilmente comprensibili per chi parte da logiche tanto vetuste.

 Il bellissimo scritto della d.ssa Artoni “La ferita dell’abbandono” chiarisce quanto invece questo legame fra passato e presente sia fondamentale per l’equilibrio psichico dell’essere umano, che mai deve perdere di vista le proprie radici se aspira a poter raggiungere e mantenere un buon equilibrio psichico ed emotivo. 

Nella lettera aperta che pubblichiamo sono molteplici i punti che si identificano con il mio personale sentire e con buona parte della linea di pensiero del nostro sito. Un esempio sta proprio nella parte di racconto della emblematica storia di Martina in cui l’assistente sociale che se ne è presa cura dopo lo strappo dalla famiglia affidataria dice che la piccola ha dormito tutta la notte abbracciata al suo peluche, e non ha mai chiamato la mamma (dando per scontato che la bambina identificasse la donna affidataria come tale. E come potrebbe essere diversamente?).

E’ qui che entrano in gioco diversi dei temi trattati da noi sul sito, in primis nelle numerose discussioni sul forum, e la domanda che le due terapeute si pongono e ci pongono è la seguente: ma è normale che in una situazione di tale drammaticità la piccola dorma serenamente e non chiami, non cerchi quella che per lei è la mamma? La risposta ovvia è che non è normale che sia così. E quali meccanismi mette in atto un essere così piccolo per difendersi dalla sofferenza derivante dalla separazione da quella che è la sua base sicura? Le psicoterapeute sostengono: “il nostro dubbio è che già l’abbiano costretta a cercare dentro se stessa difese non adeguate alla sua età,che cominciano a tagliarla fuori dall’esprimersi nel rapporto con l’adulto, quindi a interiorizzare la sofferenza, senza avere i mezzi simbolici per rappresentarsela, capirla, raccontarla.” 

A volte si ha la pretesa che i bambini capiscano cose che loro semplicemente non sono “fisiologicamente” pronti a capire, e mal si interpretano le loro reazioni non avendo bene il senso di quello che può essere il reale sviluppo intellettivo di bambini tanto piccoli, che non hanno ancora maturato gli strumenti cognitivi necessari a dare un senso a ciò che sta loro succedendo, se ne sentono sopraffatti e attuano allora meccanismi di difesa che sovente possono trarre in inganno l’osservatore che si fermi alle semplici apparenze.

La legislazione in fatto di affido ed adozione è un esempio lampante della cecità emotiva che pervade la nostra società nei confronti dell’infanzia, non riuscendo a percepire come tali le terribili sofferenze alle quali vengono sottoposti loro malgrado i bambini e, spesso, mal interpretando anche le sofferenze degli adulti con i quali questi bambini hanno instaurato un rapporto affettivo solido, scambiandole come minimo per egoismo quando invece si tratta di pura reazione al meccanismo di attaccamento, che nella sua forma sana e normale è duale e reciproco, e riguarda quindi tanto il piccolo quanto l’adulto. Le D.sse Artoni e Vallino si fanno sensibilissime interpreti di tali sofferenze da un punto di vista per così dire “interno”, come ho già avuto modo di dire nell’introduzione a “La ferita dell’abbandono”. Il punto di vista di chi conosce davvero la realtà infantile, e in particolare la realtà di bambini che hanno dovuto subire loro malgrado terribili sofferenze già in tenerissima età. 

In questo loro scritto ritrovo tanto della Teoria dell’Attaccamento, da Winnicott (citato esplicitamente) a Bowlby (per quel poco che conosco dei suoi scritti), oltre a Prescott o Neufeld. E soprattutto trovo conferma della validità di tale Teoria, ma una conferma che viene, purtroppo, dall’osservazione sul campo degli effetti nocivi della mancanza di una “base sicura”.
A volte io stesso mi sono trovato a pensare che chi è stato costretto a vivere determinati traumi infantili possa non solo portare con sé un carico di sofferenza non facile da gestire, ma anche correre il rischio di "esplodere" in un momento successivo della propria vita, un po' come potrebbe accadere a una "bomba ad orologeria emotiva"... Esplodere in modi a volte dannosi per se stessi, a volte dannosi per sé e per altri (penso ad esempio a situazioni di comportamenti gravemente autolesionisti, fino al caso estremo del suicidio, ma anche di comportamenti potentemente aggressivi, fino al caso estremo dell'omicidio, messi in atto da persone con alle spalle esperienze di sradicamento e abbandono, magari anche ripetute; casi a volte finiti nelle pagine di cronaca nera dei nostri giornali ). Una "esplosione" con un altissimo costo personale, ma anche sociale. E, proprio pensando a questo, mi meraviglia e mi indigna ancora di più il fatto che una moderna legislazione non ne tenga conto, facendosi guidare non dal buon senso ma (ai miei occhi) da una evidente cecità emotiva che impedisce di vedere come autentica, e anzi particolarmente grave, la sofferenza patita dai più piccoli.

Sono grato alle d.sse Vallino e Artoni per il permesso accordatoci alla pubblicazione, sperando di contribuire noi tutti ad una maggiore sensibilizzazione su questo delicatissimo tema, affinché nessun altro bambino debba sopportare ulteriori sofferenze gratuite dopo quelle, a volte inevitabili, che la vita gli ha destinato.

Vito Rocco Torraco 

Lo scandalo di Martina.

È possibile che i bambini vengano ascoltati?

Una precisazione: in questo breve scritto non si vuole altro che attirare l’attenzione e offrire uno spunto di riflessione, per chi si occupa di bambini e del loro benessere, sul fatto che non si debba, a nostro parere, interrompere (salvo casi di particolare gravità) un rapporto tra bambini e coppie o persone che ne abbiano avuto cura nei primissimi tempi della loro vita, quando si sia già stabilito un buon legame che costituisce sempre la base di un futuro sano sviluppo della personalità.

Non si discute, quindi, dell’opportunità o necessità di un allontanamento dal nucleo familiare originario in circostanze nocive per la salute psichica o fisica di un bimbo. Il problema che ci preoccupa è relativo a quello che avviene dopo, quando gli spostamenti del bambino diventano troppi, e non valutati a sufficienza, tra Istituti e coppie affidatarie prima che sia individuata la coppia adottiva.

La cronaca

(Abbiamo appreso le notizie dai giornali, senza cercare eventuali precisazioni. Abbiamo ritenuto inutile farlo, perché i casi sono emblematici e ci sono serviti a riflettere e, speriamo, vorrebbero far riflettere su situazioni che si ripetono più spesso di quanto si sappia, e tutto in nome della legge. Il rispetto della legge è naturalmente indispensabile, ma la LEGGE tiene sempre conto dei bisogni dei bambini?)

Una bambina, appunto Martina, è stata abbandonata alla nascita dai genitori, entrambi tossicodipendenti, senza che questi abbiano mai dato il consenso ufficiale all’adozione.
La bimba viene prima “collocata” (questo è il terribile linguaggio burocratico) in un Istituto e, dopo alcuni mesi (sette pare), è data in “affido temporaneo” a una coppia disponibile ad accoglierla in attesa che si perfezioni l’iter per la dichiarazione di adottabilità.
Con loro la bambina rimane fino a 17 mesi (più della metà della sua breve vita!) quando, maturata la possibilità dell'adozione, viene tolta ai genitori affidatari. Perché i genitori consegnino la bimba è necessario l'intervento della polizia. Non si dovrebbe chiamarli genitori perché non sono tali né per legge né per natura, ma i giornali così li chiamano e cosa altro potrebbero essere nel vissuto di Martina?

Lo scandalo sta nello strappo violento. Il comune cittadino, “il buon padre (e la buona madre) di famiglia”, come recita la legge, “il genitore sufficientemente buono”, per dirla con Winnicott, non comprende. Infatti si pone l’interrogativo: come è stato possibile essere arrivati a tanto? Forse la coppia affidataria si voleva appropriare della bambina non avendone nessun diritto e sapendo dall’inizio che non l’avrebbe avuto? O forse si è rivelata una coppia indegna? Niente di tutto ciò.

Non è stata considerata una variabile molto importante: che si era creato un forte legame affettivo tra la bambina e la coppia affidataria che si era dichiarata disponibile ad adottarla. Perché non ammettere nella nostra consapevolezza di adulti, che proprio i bambini così piccoli provano e suscitano profondi affetti? E se tale aspetto è il fondamento della crescita della personalità normale cosa comporta il trasgredire la norma di base dello sviluppo mentale dei piccolissimi?

La coppia affidataria si propone come coppia adottiva, ma la legge non lo consente. Non lo consente due volte: perchè l’affido non ha come scopo l’adozione e poi, anche se si superasse questo primo ostacolo, come a volte succede, in questo caso non era comunque possibile perché i due componenti della coppia non sono sposati, ma semplicemente convivono. Non è neppure sufficiente che si dichiarino disposti a regolarizzare di fronte alla legge la loro unione, in quanto abitando nella stessa città, non grande, dove vivono pure i genitori naturali, ciò non consentirebbe, secondo gli operatori, un taglio reale con il passato di Martina.

Inoltre il pensiero del legislatore è che l’interesse futuro della bambina sia meglio tutelato da una coppia regolarmente sposata. L’istituto dell’affido non prevede, infatti, che il bambino acquisti diritti di nessun tipo nei confronti della coppia affidataria.

Tutto vero e anche comprensibile, ma è possibile ritenere che forse la bambina non fosse d’accordo? E che se fosse stata interrogata e avesse potuto esprimere le sue preferenze avrebbe senza dubbio fatto capire che non intendeva assolutamente cambiare genitori e, per la terza volta nella sua breve vita, punti di riferimento affettivi (Una prima volta alla nascita, con l’abbandono da parte dei genitori naturali, una seconda volta a sette mesi quando è stata allontanata dalle educatrici dell’Istituto e una terza volta quando è stata tolta con la forza alla coppia che dimostrava di volerle molto bene tanto da desiderare di adottarla).

Si è letto sui giornali che una coppia aspirante all’adozione, che aveva visto la bambina vicino alla sua mamma affidataria, avrebbe rinunciato a prenderla proprio perché colpita dall’evidente forte attaccamento della bimba verso la mamma affidataria.

Un bambino più grande, coinvolto nelle liti tra i genitori che riguardavano il suo affidamento, diceva: “Ti fanno parlare, parlare, ma tanto nessuno ti ascolta”.

La prima coppia che si è presentata per adottare Martina ha invece “ascoltato” e capito il suo linguaggio, anche se non verbale, che non è stato ascoltato invece da chi doveva prendere le decisioni per il suo bene. E per il suo bene è stata affidata, in attesa di un’altra coppia adottiva, a un Istituto che i giornali non ci dicono se fosse lo stesso da cui era stata tolta a sette mesi.

La testimonianza dell’assistente sociale che si è occupata della vicenda dice che Martina ha passato bene la sua prima notte, dormendo un sonno senza interruzioni con il suo orsacchiotto, accanto ad un’educatrice, nella stessa stanza in cui si trovava un bambino della stessa età. Non ha mai chiamato la mamma (è naturale quindi pensare che per Martina la mamma fosse quella persona con cui viveva!) e non ha mai pianto.

Sono notizie che hanno suscitato un grande clamore per alcuni giorni. E’ stato poi annunciato che la bambina era già stata affidata ad una coppia in regola per l’adozione e non se ne è, giustamente, più parlato né scritto. Per questo non abbiamo voluto fare altro che il nome, ci auguriamo fittizio, apparso sui giornali. Se fittizio non è, è bene che lo si dimentichi.

Abbiamo però voluto occuparcene perché quello di Martina non è un caso isolato e mostra come ancora oggi, con gli studi e le conoscenze che, almeno negli ambienti qualificati, si dovrebbero avere, la rigida e formalmente corretta applicazione della legge sia suscettibile di determinare situazioni potenzialmente molto traumatizzanti di cui gli osservatori poco si rendono conto. “La bambina ha dormito, non ha pianto, non ha chiamato la `mamma`”, dice l’assistente sociale. Tutto bene dunque? Non è affatto certo che sia così. In condizioni analoghe un bambino normale di quell’età si comporta diversamente. Di solito piange, dorme male e chiama la mamma, a meno che la situazione gli suggerisca istintivamente di ricorrere a reazioni di “sopravvivenza”. Martina è già brava a trovare vie alternative per affrontare il doloroso distacco. È noto che le prime esperienze di separazione possono dare reazioni a livelli del soma-psiche di riconosciuta rilevanza, tali che il neonato si ammala. Martina di separazioni ne ha già avute due, prima di questa. L’assistente sociale aggiunge poi: “Non è detto che non ci sia dolore, ma…”; e il nostro dubbio è che già l’abbiano costretta a cercare dentro se stessa difese non adeguate alla sua età, che cominciano a tagliarla furoi dall’esprimersi nel rapporto con l’adulto, quindi a interiorizzare la sofferenza, senza avere i mezzi simbolici per rappresentarsela, capirla, raccontarla.

Mentre scriviamo appare sui giornali (Corriere della Sera, 9 luglio 2000) la notizia di un altro caso simile verificatosi nel territorio sotto la giurisdizione del Tribunale per i Minorenni di una grande città.
Una bambina straniera, extracomunitaria, è stata abbandonata dalla madre a tre mesi e affidata ai Servizi Sociali da un padre, anche lui straniero, non in grado di allevarla da solo. Date le precarie condizioni fisiche della neonata i Servizi l’hanno rapidamente, e giustamente, “collocata” presso una coppia regolarmente sposata, con tre figli propri, che già altre volte aveva portato avanti con successo un affido fino alla restituzione del bambino alla madre naturale.

La bimba si riprende da una situazione di grave depressione psicofisica (non cresceva a non reagiva agli stimoli) quando i “genitori” affidatari “ingenuamente, come afferma il marito, si lasciano scappare che, visto che la madre naturale non si è ripresentata e il padre, anche se sembra che abbia regolarmente visitato la bambina con la collaborazione dei Servizi Sociali, non è in grado di provvedere alla figlia, loro stessi potrebbero adottarla.

A questo punto scatta il meccanismo della “Giustizia”: la bimba viene prelevata di notte e messa in un Istituto. I “genitori” affidatari protestano inutilmente. A loro non spetta nessun diritto neanche di tutela del minore, e decidono di rendere pubblico il caso.

Conosciamo, o perlomeno possiamo intuire, la ratio del provvedimento. Gli affidatari non possono adottare la bimba perché probabilmente i genitori naturali sono a conoscenza del luogo in cui abitano e non sarebbe possibile tagliare i rapporti originari della bimba, il che è contrario alla legge sull’adozione che, con questa norma, vuole tutelare la tranquillità della nuova famiglia adottiva. Ma dove è scritto che sia necessario tagliare i ponti anche con un padre presente nei limiti delle sue possibilità? Sappiamo bene quale grave problema costituisca per i bambini adottivi (tutti, anche se non tutti ne parlano), arrivati alle soglie dell’adolescenza, il mistero sulle origini.

Ancora una volta ci scontriamo con una rigida applicazione delle disposizioni legislative che non prevedono eccezioni o la possibilità di valutare caso per caso l’opportunità dei provvedimenti e l’eventuale maggiore danno che venga in tal modo provocato.

In questo caso si può facilmente prevedere un nuovo peggioramento delle condizioni della bambina, con rischi anche di un’evoluzione psicotica, dato poi che, come risulta dai giornali, l’allontanamento risale a un mese prima che la notizia apparisse sui giornali. Il che significa che il reperimento di una famiglia adottiva può non essere, anzi, normalmente non è, così rapido e facile.

Anche in questo caso sembra non sia stata presente, nella mente di coloro che hanno deciso, applicando la legge, la considerazione che un mese, per un piccolo essere che ne ha sei, è un lungo periodo di vita e che già c’era stato un break gravissimo dalla nascita ai tre mesi dal quale solo da poco la bambina sembrava riprendersi. Possiamo dire, anzi, che il periodo in cui le è stato consentito di avviarsi a uno sviluppo normale è lungo meno della metà della sua brevissima e disgraziatissima vita.

Si ritorna al pensiero corrente: “Martina non ha pianto”, una bimba così piccola come la seconda di cui non sappiamo neppure il nome, “non capisce, non sente, non ricorda”. Un bambino così piccolo può essere spostato senza conseguenze, le adozioni meglio riuscite sono quelle dei neonati, dove un bambino viene considerato neonato anche per molti mesi.
Luoghi comuni che le maggiori conoscenze sullo sviluppo dei bambini non permettono di considerare dimostrati. Tanto più che l’esperienza di un bambino dalla nascita ai due anni è di intensa qualità emotiva e cognitiva, basti pensare quante persone e quante cose un bambino piccolo impara a conoscere, riconoscere, usare in questo periodo.

Il luogo comune è che le adozioni meglio riuscite siano quelle dei neonati e si comincia a dubitarne per la constatazione del legame evidente tra il nuovo essere e l’ambiente, anche prenatale: il neonato dà segni evidenti di riconoscere la madre attraverso il suono della voce, gli odori, i movimenti che le sono caratteristici e non reagisce solo alla madre, ma anche ai suoni e alle voci che la circondano.

Lo stato psicofisico della piccola straniera, che ha portato alla decisione dell’affido, fa pensare proprio a una sofferenza da abbandono precoce. Sofferenza che, nel momento in cui stava riprendendosi, si è riproposta aggravata dal distacco non solo dai nuovi genitori, ma anche dai tre fratelli. Per non parlare del padre naturale che l’aveva regolarmente visitata.

Dicevamo che non è dimostrato che i bambini adottivi che presentano meno problemi siano quelli la cui adozione è avvenuta nei primi mesi di vita. Sono quelli che spesso vengono chiamati neonati per un lungo periodo, e per i quali non si tiene conto della quantità di modificazioni importanti che avvengono nello sviluppo del bambino proprio in quei primi mesi: i primi sorrisi, il riconoscimento dell’altro che avviene proprio intorno ai sei mesi, per nominarne solo alcuni. Naturalmente in uno sviluppo normale e in un ambiente che si mantenga costante.

Una delle ipotesi che ci sentiamo di suggerire nel tentativo di dare una spiegazione al fatto che non sempre le adozioni precoci siano meno problematiche è che possano essere meno problematici i bambini che abbiano avuto un primo periodo “sufficientemente buono” con un oggetto materno, o facente funzioni, che abbia avuto il tempo di costituire nel bambino una fiducia di base necessaria per la capacità di ulteriori buoni rapporti.

Il punto centrale non è quindi la sopravvalutazione dell’epoca dell’adozione, ma il rispetto dei legami affettivi e fiduciosi che si sono già formati e che non dovrebbero essere assolutamente tagliati nel momento in cui si stanno costituendo.

La psicoanalisi come teoria dello sviluppo della personalità è un metodo adatto a comprendere le conseguenze tragiche della rottura del legame sociale provocata sia nei bambini sia nei neonati, quand’essi vengono traumatizzati da un intervento di rottura imprevista della continuità della loro vita. Il trauma è un processo complesso che impegna sia i livelli psichici e neurobiologici del soggetto, sia le funzioni relazionali essendo il trauma un importante disattivatore dei legami sociali.

Noi possiamo supporre che per Martina e per la piccola straniera il distacco dalle madri affidatarie costituisca un trauma incontenibile in ragione dello stato mentale primitivo delle bambine stesse. Un trauma nell’età infantile trova il bambino sopraffatto dagli affetti. Le bambine non hanno certo la capacità dell’adulto di adottare meccanismi difensivi e strategie tali da consentire di cavarsela. Potranno anche dimenticare, o dare l’impressione di aver dimenticato. Ma quello che può essere visto in Martina (sonno tranquillo, gioco, ecc.), e non sappiamo per l’altra, come un rapido adattamento a una nuova situazione, a nostro parere, è piuttosto da vedersi come la messa in atto di meccanismi di sopravvivenza, come già si è accennato, e non da attribuirsi a “un’astuzia innata”, come ha sostenuto un noto pediatra, “che portano i bambini ad adattarsi all’ambiente”.

Non siamo affatto dell’opinione che per una bambina di 17 mesi (Martina) “sia presto per introiettare una perdita e dunque avere cicatrici perenni”. Al contrario molti psicoanalisti (Stern, Kristal, ecc.) che hanno osservato e avuto esperienze terapeutiche con bambini traumatizzati in età precoce, hanno evidenziato che questi bambini (e questo vale anche e forse ancora di più per bambini piccoli come la piccola straniera) possono sperimentare uno stato mentale che si ricollega all’angoscia di morte, le cui manifestazioni non sono tanto la paura della morte, quanto una sorta di terrore mortale, una situazione bio-traumatica che si ripercuote globalmente nei processi mentali della persona, influenzando le categorie del ricordo, della rappresentazione, della simbolizzazione, della mentalizzazione.

Perciò, come i trattamenti psicoanalitici di molti bambini traumatizzati hanno mostrato, il “bussare alla porta” del trauma è un accadimento costante. Esso di manifesta, dal punto di vista psicologico, attraverso il tipico fenomeno degli incubi, del rivivere le esperienze di abbandono e dell’avere allucinazioni, fobie e ossessioni, nonché con l’impoverimento delle relazioni sociali.

Tutti i sintomi dell’angoscia di morte presenti nei quadri diagnostici post-traumatici sono accentuati ed esaltati dal fatto che il bambino traumatizzato in età precoce, per quanto noi adulti possiamo rilevare, non ne ha un ricordo che può raccontare. Come terapeuti siamo scoraggiati e spaventati che questi futuri adolescenti o adulti possano fuggire, delinquere, drogarsi, suicidarsi, uccidere. Potrebbero avere oscuramente la sensazione di qualcosa di terribile avvenuto nella loro vita senza saperne dire niente.

Questo nel caso che la sofferenza psicologica riporti nei nostri studi questi bambini ormai “pazienti psichici”. Lo scopo di questa lettera sarebbe quello di rivolgersi a chi pensa e applica le norme giuridiche nella speranza che si tenga conto del pericolo che una legge applicata troppo rigidamente secondo principi astrattamente buoni possa invece determinare danni irreversibili alla personalità dei bambini.

Info
Scritto da: 
Claudia Artoni Schlesinger, in collaborazione con Dina Vallino

Già pubblicato in Quaderni di Psicoterapia Infantile, n. 42/2001.