Lettera aperta a chi decide il destino dei bambini
Lo scandalo di Martina.
È possibile che i bambini vengano ascoltati?
Una precisazione: in questo breve scritto non si vuole altro che attirare l’attenzione e offrire uno spunto di riflessione, per chi si occupa di bambini e del loro benessere, sul fatto che non si debba, a nostro parere, interrompere (salvo casi di particolare gravità) un rapporto tra bambini e coppie o persone che ne abbiano avuto cura nei primissimi tempi della loro vita, quando si sia già stabilito un buon legame che costituisce sempre la base di un futuro sano sviluppo della personalità.
Non si discute, quindi, dell’opportunità o necessità di un allontanamento dal nucleo familiare originario in circostanze nocive per la salute psichica o fisica di un bimbo. Il problema che ci preoccupa è relativo a quello che avviene dopo, quando gli spostamenti del bambino diventano troppi, e non valutati a sufficienza, tra Istituti e coppie affidatarie prima che sia individuata la coppia adottiva.
La cronaca
(Abbiamo appreso le notizie dai giornali, senza cercare eventuali precisazioni. Abbiamo ritenuto inutile farlo, perché i casi sono emblematici e ci sono serviti a riflettere e, speriamo, vorrebbero far riflettere su situazioni che si ripetono più spesso di quanto si sappia, e tutto in nome della legge. Il rispetto della legge è naturalmente indispensabile, ma la LEGGE tiene sempre conto dei bisogni dei bambini?)
Una bambina, appunto Martina, è stata abbandonata alla nascita dai genitori, entrambi tossicodipendenti, senza che questi abbiano mai dato il consenso ufficiale all’adozione.
La bimba viene prima “collocata” (questo è il terribile linguaggio burocratico) in un Istituto e, dopo alcuni mesi (sette pare), è data in “affido temporaneo” a una coppia disponibile ad accoglierla in attesa che si perfezioni l’iter per la dichiarazione di adottabilità.
Con loro la bambina rimane fino a 17 mesi (più della metà della sua breve vita!) quando, maturata la possibilità dell'adozione, viene tolta ai genitori affidatari. Perché i genitori consegnino la bimba è necessario l'intervento della polizia. Non si dovrebbe chiamarli genitori perché non sono tali né per legge né per natura, ma i giornali così li chiamano e cosa altro potrebbero essere nel vissuto di Martina?
Lo scandalo sta nello strappo violento. Il comune cittadino, “il buon padre (e la buona madre) di famiglia”, come recita la legge, “il genitore sufficientemente buono”, per dirla con Winnicott, non comprende. Infatti si pone l’interrogativo: come è stato possibile essere arrivati a tanto? Forse la coppia affidataria si voleva appropriare della bambina non avendone nessun diritto e sapendo dall’inizio che non l’avrebbe avuto? O forse si è rivelata una coppia indegna? Niente di tutto ciò.
Non è stata considerata una variabile molto importante: che si era creato un forte legame affettivo tra la bambina e la coppia affidataria che si era dichiarata disponibile ad adottarla. Perché non ammettere nella nostra consapevolezza di adulti, che proprio i bambini così piccoli provano e suscitano profondi affetti? E se tale aspetto è il fondamento della crescita della personalità normale cosa comporta il trasgredire la norma di base dello sviluppo mentale dei piccolissimi?
La coppia affidataria si propone come coppia adottiva, ma la legge non lo consente. Non lo consente due volte: perchè l’affido non ha come scopo l’adozione e poi, anche se si superasse questo primo ostacolo, come a volte succede, in questo caso non era comunque possibile perché i due componenti della coppia non sono sposati, ma semplicemente convivono. Non è neppure sufficiente che si dichiarino disposti a regolarizzare di fronte alla legge la loro unione, in quanto abitando nella stessa città, non grande, dove vivono pure i genitori naturali, ciò non consentirebbe, secondo gli operatori, un taglio reale con il passato di Martina.
Inoltre il pensiero del legislatore è che l’interesse futuro della bambina sia meglio tutelato da una coppia regolarmente sposata. L’istituto dell’affido non prevede, infatti, che il bambino acquisti diritti di nessun tipo nei confronti della coppia affidataria.
Tutto vero e anche comprensibile, ma è possibile ritenere che forse la bambina non fosse d’accordo? E che se fosse stata interrogata e avesse potuto esprimere le sue preferenze avrebbe senza dubbio fatto capire che non intendeva assolutamente cambiare genitori e, per la terza volta nella sua breve vita, punti di riferimento affettivi (Una prima volta alla nascita, con l’abbandono da parte dei genitori naturali, una seconda volta a sette mesi quando è stata allontanata dalle educatrici dell’Istituto e una terza volta quando è stata tolta con la forza alla coppia che dimostrava di volerle molto bene tanto da desiderare di adottarla).
Si è letto sui giornali che una coppia aspirante all’adozione, che aveva visto la bambina vicino alla sua mamma affidataria, avrebbe rinunciato a prenderla proprio perché colpita dall’evidente forte attaccamento della bimba verso la mamma affidataria.
Un bambino più grande, coinvolto nelle liti tra i genitori che riguardavano il suo affidamento, diceva: “Ti fanno parlare, parlare, ma tanto nessuno ti ascolta”.
La prima coppia che si è presentata per adottare Martina ha invece “ascoltato” e capito il suo linguaggio, anche se non verbale, che non è stato ascoltato invece da chi doveva prendere le decisioni per il suo bene. E per il suo bene è stata affidata, in attesa di un’altra coppia adottiva, a un Istituto che i giornali non ci dicono se fosse lo stesso da cui era stata tolta a sette mesi.
La testimonianza dell’assistente sociale che si è occupata della vicenda dice che Martina ha passato bene la sua prima notte, dormendo un sonno senza interruzioni con il suo orsacchiotto, accanto ad un’educatrice, nella stessa stanza in cui si trovava un bambino della stessa età. Non ha mai chiamato la mamma (è naturale quindi pensare che per Martina la mamma fosse quella persona con cui viveva!) e non ha mai pianto.
Sono notizie che hanno suscitato un grande clamore per alcuni giorni. E’ stato poi annunciato che la bambina era già stata affidata ad una coppia in regola per l’adozione e non se ne è, giustamente, più parlato né scritto. Per questo non abbiamo voluto fare altro che il nome, ci auguriamo fittizio, apparso sui giornali. Se fittizio non è, è bene che lo si dimentichi.
Abbiamo però voluto occuparcene perché quello di Martina non è un caso isolato e mostra come ancora oggi, con gli studi e le conoscenze che, almeno negli ambienti qualificati, si dovrebbero avere, la rigida e formalmente corretta applicazione della legge sia suscettibile di determinare situazioni potenzialmente molto traumatizzanti di cui gli osservatori poco si rendono conto. “La bambina ha dormito, non ha pianto, non ha chiamato la `mamma`”, dice l’assistente sociale. Tutto bene dunque? Non è affatto certo che sia così. In condizioni analoghe un bambino normale di quell’età si comporta diversamente. Di solito piange, dorme male e chiama la mamma, a meno che la situazione gli suggerisca istintivamente di ricorrere a reazioni di “sopravvivenza”. Martina è già brava a trovare vie alternative per affrontare il doloroso distacco. È noto che le prime esperienze di separazione possono dare reazioni a livelli del soma-psiche di riconosciuta rilevanza, tali che il neonato si ammala. Martina di separazioni ne ha già avute due, prima di questa. L’assistente sociale aggiunge poi: “Non è detto che non ci sia dolore, ma…”; e il nostro dubbio è che già l’abbiano costretta a cercare dentro se stessa difese non adeguate alla sua età, che cominciano a tagliarla furoi dall’esprimersi nel rapporto con l’adulto, quindi a interiorizzare la sofferenza, senza avere i mezzi simbolici per rappresentarsela, capirla, raccontarla.
Mentre scriviamo appare sui giornali (Corriere della Sera, 9 luglio 2000) la notizia di un altro caso simile verificatosi nel territorio sotto la giurisdizione del Tribunale per i Minorenni di una grande città.
Una bambina straniera, extracomunitaria, è stata abbandonata dalla madre a tre mesi e affidata ai Servizi Sociali da un padre, anche lui straniero, non in grado di allevarla da solo. Date le precarie condizioni fisiche della neonata i Servizi l’hanno rapidamente, e giustamente, “collocata” presso una coppia regolarmente sposata, con tre figli propri, che già altre volte aveva portato avanti con successo un affido fino alla restituzione del bambino alla madre naturale.
La bimba si riprende da una situazione di grave depressione psicofisica (non cresceva a non reagiva agli stimoli) quando i “genitori” affidatari “ingenuamente, come afferma il marito, si lasciano scappare che, visto che la madre naturale non si è ripresentata e il padre, anche se sembra che abbia regolarmente visitato la bambina con la collaborazione dei Servizi Sociali, non è in grado di provvedere alla figlia, loro stessi potrebbero adottarla.
A questo punto scatta il meccanismo della “Giustizia”: la bimba viene prelevata di notte e messa in un Istituto. I “genitori” affidatari protestano inutilmente. A loro non spetta nessun diritto neanche di tutela del minore, e decidono di rendere pubblico il caso.
Conosciamo, o perlomeno possiamo intuire, la ratio del provvedimento. Gli affidatari non possono adottare la bimba perché probabilmente i genitori naturali sono a conoscenza del luogo in cui abitano e non sarebbe possibile tagliare i rapporti originari della bimba, il che è contrario alla legge sull’adozione che, con questa norma, vuole tutelare la tranquillità della nuova famiglia adottiva. Ma dove è scritto che sia necessario tagliare i ponti anche con un padre presente nei limiti delle sue possibilità? Sappiamo bene quale grave problema costituisca per i bambini adottivi (tutti, anche se non tutti ne parlano), arrivati alle soglie dell’adolescenza, il mistero sulle origini.
Ancora una volta ci scontriamo con una rigida applicazione delle disposizioni legislative che non prevedono eccezioni o la possibilità di valutare caso per caso l’opportunità dei provvedimenti e l’eventuale maggiore danno che venga in tal modo provocato.
In questo caso si può facilmente prevedere un nuovo peggioramento delle condizioni della bambina, con rischi anche di un’evoluzione psicotica, dato poi che, come risulta dai giornali, l’allontanamento risale a un mese prima che la notizia apparisse sui giornali. Il che significa che il reperimento di una famiglia adottiva può non essere, anzi, normalmente non è, così rapido e facile.
Anche in questo caso sembra non sia stata presente, nella mente di coloro che hanno deciso, applicando la legge, la considerazione che un mese, per un piccolo essere che ne ha sei, è un lungo periodo di vita e che già c’era stato un break gravissimo dalla nascita ai tre mesi dal quale solo da poco la bambina sembrava riprendersi. Possiamo dire, anzi, che il periodo in cui le è stato consentito di avviarsi a uno sviluppo normale è lungo meno della metà della sua brevissima e disgraziatissima vita.
Si ritorna al pensiero corrente: “Martina non ha pianto”, una bimba così piccola come la seconda di cui non sappiamo neppure il nome, “non capisce, non sente, non ricorda”. Un bambino così piccolo può essere spostato senza conseguenze, le adozioni meglio riuscite sono quelle dei neonati, dove un bambino viene considerato neonato anche per molti mesi.
Luoghi comuni che le maggiori conoscenze sullo sviluppo dei bambini non permettono di considerare dimostrati. Tanto più che l’esperienza di un bambino dalla nascita ai due anni è di intensa qualità emotiva e cognitiva, basti pensare quante persone e quante cose un bambino piccolo impara a conoscere, riconoscere, usare in questo periodo.
Il luogo comune è che le adozioni meglio riuscite siano quelle dei neonati e si comincia a dubitarne per la constatazione del legame evidente tra il nuovo essere e l’ambiente, anche prenatale: il neonato dà segni evidenti di riconoscere la madre attraverso il suono della voce, gli odori, i movimenti che le sono caratteristici e non reagisce solo alla madre, ma anche ai suoni e alle voci che la circondano.
Lo stato psicofisico della piccola straniera, che ha portato alla decisione dell’affido, fa pensare proprio a una sofferenza da abbandono precoce. Sofferenza che, nel momento in cui stava riprendendosi, si è riproposta aggravata dal distacco non solo dai nuovi genitori, ma anche dai tre fratelli. Per non parlare del padre naturale che l’aveva regolarmente visitata.
Dicevamo che non è dimostrato che i bambini adottivi che presentano meno problemi siano quelli la cui adozione è avvenuta nei primi mesi di vita. Sono quelli che spesso vengono chiamati neonati per un lungo periodo, e per i quali non si tiene conto della quantità di modificazioni importanti che avvengono nello sviluppo del bambino proprio in quei primi mesi: i primi sorrisi, il riconoscimento dell’altro che avviene proprio intorno ai sei mesi, per nominarne solo alcuni. Naturalmente in uno sviluppo normale e in un ambiente che si mantenga costante.
Una delle ipotesi che ci sentiamo di suggerire nel tentativo di dare una spiegazione al fatto che non sempre le adozioni precoci siano meno problematiche è che possano essere meno problematici i bambini che abbiano avuto un primo periodo “sufficientemente buono” con un oggetto materno, o facente funzioni, che abbia avuto il tempo di costituire nel bambino una fiducia di base necessaria per la capacità di ulteriori buoni rapporti.
Il punto centrale non è quindi la sopravvalutazione dell’epoca dell’adozione, ma il rispetto dei legami affettivi e fiduciosi che si sono già formati e che non dovrebbero essere assolutamente tagliati nel momento in cui si stanno costituendo.
La psicoanalisi come teoria dello sviluppo della personalità è un metodo adatto a comprendere le conseguenze tragiche della rottura del legame sociale provocata sia nei bambini sia nei neonati, quand’essi vengono traumatizzati da un intervento di rottura imprevista della continuità della loro vita. Il trauma è un processo complesso che impegna sia i livelli psichici e neurobiologici del soggetto, sia le funzioni relazionali essendo il trauma un importante disattivatore dei legami sociali.
Noi possiamo supporre che per Martina e per la piccola straniera il distacco dalle madri affidatarie costituisca un trauma incontenibile in ragione dello stato mentale primitivo delle bambine stesse. Un trauma nell’età infantile trova il bambino sopraffatto dagli affetti. Le bambine non hanno certo la capacità dell’adulto di adottare meccanismi difensivi e strategie tali da consentire di cavarsela. Potranno anche dimenticare, o dare l’impressione di aver dimenticato. Ma quello che può essere visto in Martina (sonno tranquillo, gioco, ecc.), e non sappiamo per l’altra, come un rapido adattamento a una nuova situazione, a nostro parere, è piuttosto da vedersi come la messa in atto di meccanismi di sopravvivenza, come già si è accennato, e non da attribuirsi a “un’astuzia innata”, come ha sostenuto un noto pediatra, “che portano i bambini ad adattarsi all’ambiente”.
Non siamo affatto dell’opinione che per una bambina di 17 mesi (Martina) “sia presto per introiettare una perdita e dunque avere cicatrici perenni”. Al contrario molti psicoanalisti (Stern, Kristal, ecc.) che hanno osservato e avuto esperienze terapeutiche con bambini traumatizzati in età precoce, hanno evidenziato che questi bambini (e questo vale anche e forse ancora di più per bambini piccoli come la piccola straniera) possono sperimentare uno stato mentale che si ricollega all’angoscia di morte, le cui manifestazioni non sono tanto la paura della morte, quanto una sorta di terrore mortale, una situazione bio-traumatica che si ripercuote globalmente nei processi mentali della persona, influenzando le categorie del ricordo, della rappresentazione, della simbolizzazione, della mentalizzazione.
Perciò, come i trattamenti psicoanalitici di molti bambini traumatizzati hanno mostrato, il “bussare alla porta” del trauma è un accadimento costante. Esso di manifesta, dal punto di vista psicologico, attraverso il tipico fenomeno degli incubi, del rivivere le esperienze di abbandono e dell’avere allucinazioni, fobie e ossessioni, nonché con l’impoverimento delle relazioni sociali.
Tutti i sintomi dell’angoscia di morte presenti nei quadri diagnostici post-traumatici sono accentuati ed esaltati dal fatto che il bambino traumatizzato in età precoce, per quanto noi adulti possiamo rilevare, non ne ha un ricordo che può raccontare. Come terapeuti siamo scoraggiati e spaventati che questi futuri adolescenti o adulti possano fuggire, delinquere, drogarsi, suicidarsi, uccidere. Potrebbero avere oscuramente la sensazione di qualcosa di terribile avvenuto nella loro vita senza saperne dire niente.
Questo nel caso che la sofferenza psicologica riporti nei nostri studi questi bambini ormai “pazienti psichici”. Lo scopo di questa lettera sarebbe quello di rivolgersi a chi pensa e applica le norme giuridiche nella speranza che si tenga conto del pericolo che una legge applicata troppo rigidamente secondo principi astrattamente buoni possa invece determinare danni irreversibili alla personalità dei bambini.