Crescere nel dialogo ("Il risveglio di Eva")

Da quando so che picchiare i bambini produce sul lungo periodo soltanto conseguenze negative, mi sono impegnata attivamente per trasmettere le mie informazioni ai giovani genitori, per mezzo di articoli, di interviste, di conferenze e comunicati. A volte parlo anche con gli allievi delle scuole superiori, con la speranza di comunicare loro queste mie importanti conoscenze prima che si sposino e a loro volta abbiano figli. In tutti i miei incontri registro, da un lato, una forte resistenza a occuparsi comunque dell’argomento; dall’altro, ho molto spesso la sensazione di toccare, in quasi tutti i miei interlocutori, un punto vulnerabile che da tempo aspettava di essere messo a nudo e riconosciuto, poiché la ferita non può guarire finché rimane coperta e negata.

Con i ragazzi delle scuole ho sempre l’impressione che sulle prime essi apparentemente non sappiano di che cosa sto parlando e mi guardino come se venissi da un pianeta sconosciuto. Ogni tanto si svolgono tra noi scambi di battute di questo tipo: “Le cose che lei racconta non le ho mai sentite prima di oggi”, “Beh, per quelli della mia età forse si tratta di episodi poco frequenti”, “No, non soltanto per quelli della sua età. Dappertutto sento dire che non si possono educare i bambini senza picchiarli. Ci sono state, è vero, alcune teste matte – come gli hippy o i sessantottini – che non volevano ricorrere alle botte, ma in quel modo hanno trascurato i figli e non li hanno educati. E questi, poi diventati adulti, si sono lamentati di non aver ricevuto disciplina, regole, un orientamento. Del resto, oggi tutti vediamo quel che diventano i bambini quando non sono stati allevati con la dovuta severità dai genitori. Fanno quello che vogliono; da adolescenti giocano addirittura con le armi e ammazzano i compagni di scuola. Non succede soltanto negli USA ma anche da noi”.

I giovani che parlano in questo modo si identificano completamente con l’opinione dei genitori. Ma sono ancora adolescenti, sono ancora curiosi, vivono un’età di trasformazioni emotive e intellettuali e pertanto sono ancora disponibili a cambiare opinione: per questo li vedo sempre ricettivi nei confronti di ciò che comunico loro. Non tutti ma molti di loro si convincono del fatto che i giovani che aggrediscono fisicamente i compagni, o addirittura li ammazzano, non lo fanno perché a suo tempo sono stati viziati con troppo amore ma, al contrario, perché sono cresciuti nell’abbandono e maltrattati senza alcuna possibilità di reagire. La rabbia repressa agisce come una bomba a orologeria, che finirà per esplodere in odio distruttivo. Quando spiego queste cose, leggo sul volto dei ragazzi che essi capiscono perfettamente ciò di cui parlo. Il loro corpo è ancora molto vicino a tutto questo e, a differenza degli adulti, nessuno di loro mi dice: “Eppure, nonostante le botte, sono diventato grande e forte. E lo devo proprio al papà e alla mamma che mi hanno pestato”. No, gli adolescenti non lo affermano, e il ricordo delle botte ricevute non risale a cinquanta o sessanta anni addietro ma a una decina appena.

Un liceale di circa diciassette anni, i cui genitori sono entrambi insegnanti, racconta: “I miei genitori mi vogliono bene e si sono comportati con me nel migliore dei modi. All’inizio non mi hanno picchiato, ma poi non hanno potuto farne a meno perché ero una testa matta e mi piaceva sempre fare un mucchio di sciocchezze”. Il ragazzo sembra molto intelligente, ma è sempre irrequieto e nervoso. Gli chiedo di darci un esempio delle sue “sciocchezze”. “A dieci anni, per esempio, sono scappato di casa e mia madre mi ha cercato per cinque ore prima di rintracciarmi. Naturalmente me le hanno date di santa ragione e oggi sono convinto che la punizione fosse giusta. Quella stupidaggine non l’ho più ripetuta, altre però sì: non riesco a trattenermi. Probabilmente sono nato cattivo.” “Non si è mai domandato perché agisce così? Che cosa l’ha spinta a scappare e farsi inseguire da sua madre per cinque ore? Voleva davvero soltanto farle del male? Cerchi di immedesimarsi in quel bambino di dieci anni.” Il ragazzo non mi guarda, ma mi accorgo che il suo viso è cambiato e che ha deposto ogni arroganza. Dopo una pausa dice: “Mentre mi picchiavano, ricordo che pensavo che, se mi avevano rincorso così disperatamente, dovevano volermi proprio bene. Tanta furia era una prova del loro amore”. “Allora, scappare per mettere alla prova il loro amore non è stata una sciocchezza. Forse lei non aveva altre prove concrete.” “Certo, messa così, ha un senso. Ho sempre avuto la sensazione di essere un peso per i miei genitori; pensavo che sarebbero stati più contenti senza di me. Ma la loro rabbia mi ha dimostrato che non era vero.” “Dunque, il bambino ha agito in modo intelligente e mirato. Perché, allora, parla di 'sciocchezze'? “Non lo so… Ho sempre pensato di essere un bambino cattivo, sempre spinto a combinarne di tutti i colori.”

Una persona può dunque trascorrere l’infanzia pensandosi così etichettato: “Sono cattivo, uno sciocco, insopportabile, sono di peso a tutti”. Né riesce mai a correggere quella sensazione perché l’ambiente in cui cresce sembra confermare la sua convinzione. Le “etichette” sono attribuite dai genitori a seconda di quel che non riescono a sopportare nel bambino. E ciò che non riescono ad accettare è proprio quel che risveglia in loro ricordi traumatici. Ma non è detto che il bambino debba rimanere prigioniero di quelle attribuzioni: sarebbe sufficiente che un insegnante lo aiutasse a metterle in dubbio. L’esperienza mi ha dimostrato che farlo non è difficile, ma che avviene assai di rado.

Il mio sforzo di trasmettere queste conoscenze mi porta talvolta a incontrare donne che fanno parte della Leche League, un movimento sorto in America ma ormai diffuso anche in Europa. Sono donne che desiderano allattare il più a lungo possibile il loro bambino poiché ritengono che ciò sia molto importante per la sua crescita. Per quanto concerne il primo anno di vita, concordo perfettamente con loro. All’inizio volevo semplicemente dire loro che non è bene educare i bambini a suon di “sberle”. Ma al fondo ero convinta che mai nessuna madre potrebbe pensare di ricorrere ai castighi quando, grazie all’allattamento, si è sentita tanto legata al suo piccolo. Purtroppo, la mia ipotesi si rivelò ben presto del tutto infondata, poiché quasi tutte le donne incontrate in quelle occasioni si sentivano spesso indotte a picchiare il bambino: o per esasperazione, perché non sopportavano di sentirlo urlare, o per disperazione, perché non capivano il motivo del suo pianto e pensavano di essere sovraffaticate o esauste, dovendosi occupare di troppe cose: casa, bambino, lavoro ecc. Nessuna fino ad allora aveva pensato che l’impulso di picchiare traesse origine dalla loro infanzia infelice. Alcune lottavano disperatamente per non cedervi, altre invece cedevano, convinte di far bene, specie quand’erano esortate a farlo dalle proprie madri.

Mi sono recata presso uno di quei gruppi per tre volte, a distanza di quattro mesi. La prima volta ho distribuito loro un foglio da me scritto, in cui spiegavo le conseguenze negative delle “sberle” date ai lattanti e ai bambini. Alle giovani donne che venivano con il loro piccolo domandavo se avessero qualche problema in merito. Una mi rispose che, se necessario, dava una “sberla” al bambino per mostrargli quel che non doveva fare, e lo faceva senza provare alcuna particolare emozione. Un’altra mi raccontò che ogni tanto le scappava la mano, ma che non capitava spesso. Una terza obiettò che il suo bambino di dieci mesi non la smetteva mai di sbriciolare i biscotti per terra e dunque che doveva una buona volta imparare a piantarla; tuttavia le sberle non bastavano e, secondo la madre di lei, questo era dovuto alla sua eccessiva accondiscendenza. Le domandai se sentiva il bisogno di insegnargli le buone maniere a suon di sberle. Improvvisamente, scoppiò in lacrime: “No, mi dispiace sempre, ma devo pur farlo per il suo bene. Tutti in famiglia mi dicono che lo sto viziando e che finirà per diventare un tiranno. Che altro posso fare?”. Le domandai ancora se da piccola era stata picchiata: “Naturalmente”, rispose. “Come fanno tutti.”

Rivolsi la stessa domanda alla madre che castigava senza provare alcuna emozione e lei mi spiegò che era stata educata da entrambi i genitori a colpi di cinghiate e bacchettate, oltrettutto inferte con particolare rabbia. Lei, invece, non provava alcun sentimento nel punire i suo bambino: gli voleva bene e non voleva farlo soffrire scatenandogli addosso la sua rabbia, non riusciva però a capire perché il piccolo fosse sempre impaurito e si aggrappasse a lei. Quando le domandai se ritenesse possibile che il bambino avesse paura di ricevere altre botte, mi rispose che secondo lei era troppo piccolo per capire una cosa del genere. Ed era davvero convinta che il bambino fosse troppo piccolo per provare paura, ma nello stesso tempo lo riteneva abbastanza ragionevole per capire le intenzioni pedagogiche che lei cercava di trasmettergli a suon di sberle. Non riusciva a capire che un bambino, se prova paura, non può imparare altro che ad aver paura.

Incontrai il gruppo a distanza di alcuni mesi e verificai con stupore il processo che si era innescato in loro. Avevano cominciato a vedere chiaro: per loro, i bambini non erano più oggetti da educare, bensì esseri umani che comunicavano con gli occhi, con il pianto, con il comportamento. E tutte avevano sviluppato buone antenne per recepire i messaggi trasmessi dai loro piccoli. Probabilmente la confidenza con il figlio, acquisita grazie all’allattamento, le aveva aiutate a raccogliere la provocazione degli interrogativi che avevo posto e, nel contempo, ad aprirsi all’esperienza del proprio passato, poiché la vicinanza con il bambino le faceva sentire meno sole. D’altra parte, proprio tale vicinanza ha fatto sì che i bisogni infantili, che tanto a lungo avevano dovuto tenere nascosti anche a se stesse, venissero finalmente alla superficie. Il loro corpo, infatti, ricordava con maggiore intensità le frustrazioni subìte nella prima infanzia, nonché il muro di ignoranza e di freddezza contro cui si era sempre scontrato.

Una delle giovani donne, per esempio, raccontò che soltanto ora aveva saputo dalla sorella che la madre, quando lei aveva due anni, l’aveva presa a morsi fino a farla sanguinare. Questo era avvenuto in una famiglia in cui entrambi i genitori ricorrevano alla violenza. Al nostro primo incontro, questa donna si era mostrata ben poco interessata al tema: il suo orientamento era molto intellettuale e mi raccontò di seguire una terapia NLP che l’avrebbe aiutata a non adottare modelli distruttivi. Ma già al secondo incontro raccontò tra le lacrime della propria sofferenza e dello sforzo di essere una madre diversa da come l’esperienza l’avrebbe condizionata a essere. Il suo coraggio nel volere abbandonare quella tradizione di violenza mi sorprese. Alcuni mesi più tardi, durante la terza riunione, raccontò di essere stata morsicata dalla madre quando aveva due anni e alcune donne scoppiarono in lacrime, quasi non riuscendo a sopportare di ascoltare qualcosa che risvegliava anche in loro antichi ricordi. Si stupivano di aver potuto amare madri capaci di tanta crudeltà, ma nel contempo scoprivano anche dentro di sé una spinta a essere crudeli, di cui non avevano mai sospettato l’esistenza. Ciò le aiutò a essere tolleranti nei confronti dell’ignoranza dimostrata dalla propria madre. Tutte furono d’accordo nel riconoscere che il lavoro di gruppo le aveva aiutate a controllare meglio queste tendenze (che sono innate), poiché avevano potuto scoprire da dove esse traevano palesemente origine e sentivano di non essere più in balia di quella coazione.

Nel libro Le pardon originel la teologa Lytta Basset scrive che il male non può essere estirpato poiché siamo condannati a ripetere ciò che un tempo è stato fatto anche a noi. Pertanto non abbiamo altra possibilità se non di accettare il male perdonando a noi stessi e agli altri in modo di divenire, per quanto possibile, liberi. L’autrice concorda con me quanto alla necessità di riconoscere ciò che ci è stato fatto, per essere davvero in grado di perdonare, ma ai miei occhi l’elemento essenziale non è già l’atto del perdono, bensì la possibilità di prendere sul serio e non negare la realtà della prima infanzia.

Come terapeuta, so che è possibile liberarsi degli antichi modelli quando si incontra una persona che crede in noi ed è in grado di sostenerci. Che non ci tiene prediche di sorta, ma vuole davvero aiutarci a vivere con la nostra verità. La mia stessa esperienza e quella con i pazienti mi insegnano che esistono anche strumenti del tutto diversi per liberarsi del male – o, per lo meno, più strumenti di quelli finora immaginati dai teologi.

Perdonare ai vecchi genitori sinceramente (e non perché costretti dalla morale) non è difficile, ma soltanto dopo che saremo riusciti a percepire e a riconoscere in tutta la sua portata la sofferenza che essi ci hanno procurato un tempo, a riconoscere pienamente la crudeltà esercitata su di noi. Una donna adulta è perfettamente in grado di immaginare che anche una persona per bene è capace di essere crudele qualora sia stata maltrattata da piccola. Tanto più sa immaginarlo una donna che ora vive con il proprio bambino e riesce ad essere sincera con se stessa, come è avvenuto con le donne del gruppo di cui ho parlato poco fa. Col tempo, costei saprà anche perdonare, ma non è il perdono che libera queste giovani madri, bensì il sapere che non sono sole con la loro scoperta e che non devono più negare la verità, poiché possono riconoscere il male in quanto tale. Questa sicurezza può crescere e prendere corpo nel lavoro di gruppo.

L’empatia che queste donne hanno provato per la loro compagna era così immediata e autentica che essa stessa si è sentita per la prima volta autorizzata a ribellarsi contro i genitori. In seguito mi ha raccontato che da quel momento in poi i suoi bambini le sono apparsi in una luce del tutto diversa: non più esseri che non avevano altro in mente se non di tiranneggiarla, bensì creature inermi di cui ora lei voleva assumersi la responsabilità. Ed era in grado di farlo poiché la bambina che lei stessa era stata aveva finalmente cominciato a crescere, mentre fino ad allora il terrore di essere violentata dai genitori l’aveva tenuta chiusa nella sua prigione.

Molti trattano il bambino che portano dentro di sé come un recluso che deve vivere perennemente terrorizzato, tenuto a distanza dalla presa di conoscenza che, sola, può renderlo libero. Potrà invece abbandonare la sua prigione soltanto quando finalmente gli sarà consentito di sciogliersi dalle sue catene, di vedere e di giudicare ciò che vede. Né proverà più alcuna paura poiché sarà divenuto consapevole della manipolazione. Ora non teme più di vedere, poiché non deve più tacere e può dire ciò che ha veduto; poiché non è più solo con ciò che vede ma gode della conferma del Testimone consapevole; poiché da lui ha finalmente ricevuto quel che i genitori gli hanno negato: la prova che le sue percezioni sono giuste, che crudeltà e manipolazione sono effettivamente tali e che il bambino non deve costringersi a vedere in esse una forma di amore. Infine, che sapere questo è indispensabile per essere se stessi e amare, e che è lecito gustare il frutto dell’albero della conoscenza.

Per la prima volta costoro possono sentirsi in armonia con se stessi: sentimento del tutto naturale per un bambino che sia amato e protetto. Possono dare credito ai propri sensi senza più continuare a ingannarsi; possono sentirsi finalmente “a casa” dentro di sé, senza più dover fuggire. Possono accettare i propri sentimenti, fidando nel fatto che i messaggi che essi trasmettono pertengono soltanto a loro e alla loro storia – una storia che impareranno a conoscere sempre più a fondo.

Nei capitoli “Sandra” e “Anika” del mio libro Le vie della vita descrivo i dialoghi che alcune figlie ormai adulte intrattengono con i vecchi genitori. Possiamo affermare che tali dialoghi hanno un’efficacia terapeutica? È un interrogativo che mi sono sentita porre più volte e che vorrei qui esplorare più a fondo. Quando i genitori sono disponibili e capaci di ascoltare, esprimendo apertamente i loro sentimenti, credo che questi colloqui abbiano un effetto terapeutico per entrambe le parti. Ma se i genitori vogliono continuare a impartire la lezione ai loro figli, nessun vero dialogo sarà possibile. Nei due esempi che ho riportato in quel libro, entrambe le figlie avevano alle spalle una lunga terapia, grazie alla quale erano in grado di formulare le domande in modo da ricevere risposte che avrebbero potuto aiutarle nel loro percorso. Erano altresì capaci di infrangere, in parte, le difese dei genitori, nel contempo prestando attenzione alle proprie emozioni. Il che non avviene automaticamente.

Ciò che consentiva alle due donne di parlare con tanta calma senza cedere alla violenza di emozioni che avrebbero interrotto il dialogo, non era certo un atteggiamento terapeutico. Con i genitori, tale atteggiamento non è possibile semplicemente per il fatto che chiediamo loro qualcosa: le due donne volevano avere altre informazioni e pertanto non potevano procedere con la stessa libertà del terapeuta, che non dipende dai suoi pazienti e per questo può prestare ascolto ai loro sentimenti e bisogni. Sandra e Anika cercavano di avere un dialogo autentico con i genitori, in quanto figlie divenute adulte. Ed è qui la differenza profonda tra il loro intento e quello di un terapeuta.

Che cosa ha dunque aiutato le due donne a non cedere alla rabbia nel momento in cui i genitori dimostravano, come un tempo, di non capire? Entrambe hanno imparato con la terapia ad accettare in se stesse le emozioni intense, a prenderle sul serio senza porle in atto contro i propri interessi. In questo modo hanno imparato a controllare i propri sentimenti: pertanto, non erano più costrette a lasciarsi trascinare da essi ed erano libere di viverli e di decidere quali sentimenti mostrare e a chi. Se avessero seguito una terapia limitata al solo livello cognitivo, che non le avesse messe in contatto con le emozioni, avrebbero corso il rischio, durante il confronto con i genitori, di perdere il controllo o di rimanere a tal punto sulla difensiva da non poter condurre un dialogo autentico.

Per disporsi a quel dialogo è bene che anche i genitori si sottopongano a una terapia? Naturalmente sarebbe l’ideale, poiché il confronto con figli adulti, consapevoli di sé, rappresenta una grossa sfida per le persone anziane che si trovano messe a confronto con esperienze da lungo tempo rimosse. Non appena avvertono che non possono più incolpare i figli delle ferite che hanno subìto a opera dei propri genitori, vengono a trovarsi in una situazione molto difficile poiché potrebbero risvegliarsi in loro emozioni infantili precocemente rimosse. Una terapia che offrisse loro l’occasione di lavorare con qualcuno su tali emozioni (ed è cosa possibile in ogni età) li aiuterebbe a capire meglio se stessi.

Tuttavia, per sostenere il dialogo di cui abbiamo detto, tale terapia non è indispensabile. Ritengo invece essenziale la disposizione d’animo dei vecchi genitori, i quali anche senza terapia possono prendere spunto dalle parole dei figli per riflettere sulla propria vita di un tempo, provando a immaginare come hanno agito i figli quand’erano piccoli. Ma tutto questo è possibile se i genitori non presumono più inconsciamente che il bambino sia venuto al mondo per renderli finalmente felici e/o per sostituire i nonni. L’anziano deve farsi consapevole dello scambio inconsapevole delle realtà.

Il che vale per entrambe le parti. Anche i figli adulti confondono spesso la realtà infantile con l’attuale: lo si capisce, per esempio, dal modo in cui trattano i propri figli, ma anche dal modo in cui si comportano con i genitori. Ho conosciuto una donna di quarant’anni che non riusciva a trovare un compagno né un lavoro soddisfacente, e ne incolpava ancora e sempre la madre, rimproverandola di non aver avuto abbastanza cura di lei quand’era piccola e di non averla protetta dall’incesto. La madre, a sua volta vittima di incesto, non aveva effettivamente veduto quel che avveniva in sua presenza nella casa.

Quando in seguito lo venne a sapere dalla figlia, ne fu a tal punto sconvolta da dirsi pronta a qualsiasi cosa pur di fare ammenda di quanto era successo. Continuava a scusarsi della sua inadeguatezza e accettava tutte le rimostranze della figlia, anche se riguardavano cose che nulla avevano a che fare con la madre. E la figlia, che nonostante tutto non poteva o non voleva rinunciare all’immagine dell’amato padre, usava la madre alla stregua di capro espiatorio. Reagiva come una bambina piccola, rimanendo prigioniera del legame materno senza assumersi la responsabilità delle proprie emozioni e azioni di adulta.

Per altro verso, anche la madre rimaneva imprigionata nella propria realtà infantile: paventava sempre l’incombente nuovo castigo da parte della propria madre ed era sempre pronta a confessarsi colpevole. In tale contesto simbolico, sua figlia agiva da madre severa e punitiva, che lei cercava di compiacere esibendo la propria docilità e da cui impetrava perdono. Nel momento in cui implorava un segno di amore e di riconciliazione confermava i sentimenti di onnipotenza della figlia. Com’è ovvio, un tale legame non può generare alcun amore autentico, bensì soltanto un legame di odio che si nutre delle menzogne che entrambe le parti raccontano a se stesse. La figlia cercava di evitare di confrontarsi con il padre, usando la madre come bersaglio della propria rabbia, mentre la madre non voleva riconoscere che la figlia non era sua madre, che aveva diritto alla propria vita e non doveva essere più ostacolata dai sentimenti di colpa della madre.

Il dialogo tra generazioni può essere molto proficuo quando entrambe le parti hanno il coraggio di aprire il proprio cuore e di ascoltare l’altro senza doversi più nascondere dietro al muro del silenzio o del potere. Il rapporto madre-figlia che abbiamo descritto sopra è naturalmente molto lontano da una simile possibilità: è un rapporto non costruttivo bensì distruttivo. La figlia sfrutta la disponibilità della madre al pentimento, per non assumere in prima persona la responsabilità della propria vita, mentre la madre usa la figlia facendo di lei la propria madre senza avere il coraggio di porle dei limiti e di difendersi da ingiuste accuse: paventa sia la propria rabbia sia quella della figlia. Se un giorno entrambe daranno libero corso ai propri sentimenti e li metteranno in parole, forse scopriranno da dove essi traggono origine nella vita di ciascuna. Un dialogo davvero aperto offre a chi lo conduce la possibilità di crescere: entrambe le parti scoprono con stupore di non provare più tanta paura e di essere riuscite a riconquistare la capacità originaria di amare e di comunicare liberamente.

Info
Scritto da: 
Alice Miller

Tratto da: Il risveglio di Eva, Alice Miller, per gentile concessione di Raffaello Cortina Editore - Cap. 9 “Crescere nel dialogo” (pagg. 119-129), © 2002.