Neonati strappati dal seno materno diventano adulti sradicati e violenti
Il connubio tecnologia-nascita si può far iniziare nell’epoca dei Lumi, quando la casta dei medici si impossessa del sapere delle levatrici, con il supporto di Stato e Chiesa. Per millenni la nascita era stata avvolta dalla penombra, sia nell’ambiente fisico del parto, isolato, caldo e poco illuminato, sia simbolicamente.
Caratterizzato, come tutti i saperi pratici, dall’accordo intimo tra vissuto personale e partecipazione al vissuto altrui, il sapere della levatrice non era “chiaro” e standardizzato, così come la gravida non era oggetto di “osservazione”. Inoltre l’evento nascita era oscuro agli uomini, perché condiviso dalla sola comunità femminile, forte di una padronanza assoluta in un campo in cui i maschi erano tenuti fuori. La modalità sensoriale prevalente nella tradizione prescientifica è l’ascolto.
La donna gravida avverte all’inizio segnali interni, movimenti, percezioni che la allertano e la tengono in ascolto del suo corpo, la portano da altre donne, che ascolteranno i suoi racconti e cercheranno conferme nel repertorio narrativo che le accompagna. Più tardi la trombetta consentirà di cogliere il battito del bimbo e il sapere materno che si costruirà momento per momento dopo la nascita sarà fatto di un’attenzione particolare ai segnali acustici, il pianto, i gridolini, le espressioni di soddisfazione del neonato. L’ascolto definisce la postura di accoglienza della donna verso il bambino, delle altre donne verso la gravida e, insieme al vocabolario del tattile e dell’abbraccio (quello fisico della diade, quello solidale della rete sociale), racconta del protagonismo delle donne nel generare vita fisica e vita simbolica.
Con l’intervento del sapere medico e scientifico nel parto, verso la fine del Settecento, e l’avvio inesorabile della mascolinizzazione dell’ostetricia, cambia l’alfabeto della nascita, che assume il lessico sensoriale della vista. Fatto (non più evento) messo letteralmente sotto i riflettori, la nascita va “monitorata”, la vagina e l’utero “esplorati”, il bambino si può vedere ai raggi X e poi con l’ecografia bi e tridimensionale. In sala parto ci sono almeno tre operatori che sorvegliano, quando non specializzandi e tirocinanti che somministrano questionari. Sul finire del ‘900, fanno ingresso foto e videocamere, brandite dal padre. Il voyerismo medico denuda del segreto la gravidanza, il travaglio, il parto e il primo contatto tra madre e figlio, in parallelo al raffinarsi sempre maggiore di strumenti tecnologici che, nel contesto della medicalizzazione della vita, non fungono tanto da mediatori quanto da sostituti, in un modello di delega alla macchina del rapporto umano fondato sull’ascolto. Così se la trombetta sul pancione portava all’orecchio il suono, mediando tra due esseri umani vicini, il cardiotocografo lo traduce in un tracciato zigzagante, che, una volta strappato, il medico può osservare anche da un’altra stanza, senza alcun contatto con la coppia in travaglio. È cambiato l’universo dei segni della nascita.
Tutto questo ha portato vantaggi? In realtà, oggi sappiamo come le procedure di osservazione rappresentino una delle modalità di disturbo del parto fisiologico. Se già negli anni ’80, veniva evidenziato come il monitoraggio elettronico costante non dà alcun beneficio[1], anzi è correlato con un più alto tasso di parti cesarei, M. Odent[2] chiarisce che sentirsi osservate è collegato a due fattori che rendono più difficoltoso e rischioso il parto: la secrezione di adrenalina, antagonista dell’ossitocina fisiologicamente prodotta durante il travaglio; l’attivazione della neocorteccia, il cervello razionale, che inibisce l’attività del cervello rettile, il quale invece regge il buon andamento del parto. Questi due processi vengono innescati da vere e proprie “azioni di disturbo”, normalizzate dalle routine mediche, e fondate sulla presenza invasiva di “occhi” che finiscono per rendere il processo più doloroso, più lungo e più rischioso. L’intervento violento della tecnologia trova nell’uso non giustificato dell’ossitocina sintetica come metodo di induzione del parto una delle sue espressioni più gravi: gli studi più recenti mostrano come essa inibisca la produzione di ossitocina naturale, interferendo nel normale funzionamento del “sistema dell’amore” sia della madre, il cui attaccamento al bambino verrà disturbato, sia, pare da studi molto recenti, del feto.
Se per quanto riguarda la donna, un uso massiccio, inutile e talvolta dannoso della tecnologia ha significato controllo sociale, espropriazione di saperi, svalutazione sessista, per l’evento nascita nel suo complesso essa rappresenta il modo ancora violento attraverso cui i nuovi nati vengono accolti. Non solo: per la prima volta nella storia dell’umanità si assiste alla nascita massiccia di esseri umani, che, almeno nel mondo occidentale, nascono senza che le donne abbiano prodotto il principale costituente chimico dell’amore. Se poi gli stessi neonati smettono di produrne, come sembrerebbe, lo scenario diventa inquietante, perché potrebbe avere sia effetti fisiologici a lungo termine, nella difficoltà di produrre ossitocina anche dopo nel corso della vita, con risultati ancora sconosciuti nelle relazioni umane. Il malfunzionamento del sistema dell’ossitocina potrebbe veder crescere esseri umani sempre meno capaci di intessere relazioni solidali, pacifiche, aperte, feconde. Sono scenari allarmistici? È possibile investire in una cultura che de-tecnologizza la nascita, senza temere alcunché?
La risposta è sì, anzi bisogna. Le statistiche olandesi mostrano come il ricorso di una donna su 3 al parto domiciliare si accompagni alla più bassa incidenza di parti cesarei europea. In Italia avviene il contrario: a parte l’insana abitudine tutta nostrana del cesareo su richiesta, a suggello della mancata coscienza femminile di poter dare alla luce con le proprie forze, percentuali elevatissime di cesarei si correlano ad altrettanto elevate percentuali di parti ospedalizzati. Se invece prendiamo le statistiche relative all’attività domiciliare della celebre Ina May Gaskin, notiamo che su 2.028 parti dal 1970 al 2000, i ricoveri d’urgenza sono stati l’1,3%, i cesarei l’1,4%, le 15 coppie di gemelli sono nati tutti per via vaginale e tutte le donne hanno cominciato subito e hanno continuato ad allattare[3]. Questi dati mostrano come è possibile sottrarsi senza timori all’ospedalizzazione, quando non ci sono rischi evidenti e con le adeguate precauzioni.
Confermano inoltre come la medicalizzazione della vita crei patologie per poi offrire terapie, in un gioco che oggi sempre più unisce alla mentalità scientifica arrogante, un business monetario di portata immensa. Si pensi all’uso indiscriminato di integratori in gravidanza, ai costi dei parti cesarei o con epidurale nelle cliniche private (o negli ospedali pubblici dove non è garantita la presenza costante di un anestesista), ai costi di visite ed ecografie, che, secondo l’ultimo rapporto Istat sul tema, arrivano addirittura fino a 8-9 per gravidanza.
Dietro c’è la logica della produzione industriale di corpi umani, lo svilimento dell’evento più significativo della storia umana, c’è la violenza contro l’essere più debole, che, se non può più essere definito inetto, resta inetto in un campo, quello dell’autodifesa dall’aggressione del mondo adulto. Questa violenza è possibile solo a una condizione: indebolire la coscienza femminile, rendere le donne docili all’intervento di terzi, cosa che nessun mammifero consentirebbe. La violenza agita in forme fisiche e simboliche, attraverso dispositivi di potere che si realizzano nel controllo dei corpi in questo caso più che in ogni altro, va però colta sotto un duplice profilo: è sì violenza contro i singoli, donna e bambino, ma attraverso la loro singolarità, è violenza contro la loro relazione, quella primaria. E, come si vedrà nella seconda parte, continua nelle prime ore, nei primi mesi, nei primi anni di vita del bambino.
Come accennato nella prima parte, le azioni di disturbo attuate durante il travaglio e il parto trovano continuità appena la nascita è avvenuta e si sintetizzano nella violazione dell’intimità tra madre e figlio e nelle pressioni sociali alla loro separazione. È vero che dopo il movimento avviato da Leboyer, i nidi nei reparti maternità sono lentamente stati chiusi (non tutti…) a vantaggio del rooming in, ma concedere ai due di guardarsi negli occhi per pochi minuti è un magro residuo del messaggio originario, che oggi Odent riafferma sulla base di moltissimi studi che dimostrano l’importanza cruciale delle prime ore di contatto pelle a pelle tra la neomamma e il neonato. Alcuni esempi: si incrementano le difese contro i batteri, perché il bimbo è familiare con i batteri materni e sarà più resistente se non viene esposto a quelli presenti sugli altri corpi e nell’ambiente estraneo; il piccolo nell’arco di un’ora, spostandosi autonomamente come tutti i cuccioli, trova il capezzolo e inizia a succhiare correttamente. Lo scambio di sguardi – che ogni donna trova di una bellezza senza paragoni – proprio come per le oche di Lorenz, rappresenta un imprinting indimenticabile che cementa il legame che si approfondirà giorno per giorno. Gli effetti benefici sulla qualità del rapporto successivo e sullo stato generale di benessere del bambino sono stati studiati e si concretizzano per esempio in bassi livelli di irritabilità e di stress, basse concentrazioni di cortisolo nel sangue, una più alta attentività, una maggiore ricettività agli stimoli esterni.
Allora perché nella maggior parte degli ospedali il bambino, dopo questa rapida occhiata con la madre, viene portato via, misurato, esaminato, lavato, vestito e messo in culla? La madre, nella migliore ipotesi (parto fisiologico e sutura dell’episiotomia di routine), non vedrà il bambino giusto per l’ora fatidica che segna la differenza, e tutto, poi, sarà più faticoso, più lento, sarà atto di recupero di un benessere perduto. In altri casi – cesareo o complicazioni neonatali – le ore di separazione si moltiplicano, proprio quando i due hanno ancor più bisogno di trovare sicurezza l’un l’altro. Se il bambino è in ipotermia (cioè sente un po’ freddo), glielo toglieranno anche per 12 ore. E questo a dispetto di quelle tecnologie “povere” come la marsupio terapia, di cui possono giovarsi le mamme dove le scatole di vetro riscaldate non hanno la meglio.
C’è da chiedersi perché ogni cultura, tranne pochissime, predispone l’accoglienza del neonato disturbando pesantemente l’instaurarsi di un sereno e naturale rapporto primario. Odent fa una lettura di grande interesse quando ipotizza che disturbare la nascita è funzionale ad attivare il potenziale di aggressività dei nuovi nati, rafforzando un carattere che ha fatto della specie umana quella dominatrice. Nel passaggio dalla cultura dei raccoglitori all’agricoltura, l’essere umano ha fatto dell’aggressione diretta alle altre specie e agli altri gruppi umani la sua modalità d’essere nel mondo. Attivare e incrementare il potenziale aggressivo è stato dunque funzionale alla sopravvivenza della specie. E le pratiche di cura verso i nuovi nati, a cominciare dalla nascita, sono lo strumento essenziale per selezionare i comportamenti adattivi.
La pratica della separazione precoce tra madre e figlio che accompagna il primo vagito viene reiterata per tutta la prima infanzia, sostenuta da una cultura pedagogica diffusa che svaluta i comportamenti di vicinanza, lanciando anatemi sulle madri e i genitori a cui viene istintivo stare “appiccicati” ai propri figli: quei genitori, dice la profezia, impediranno ai figli di diventare autonomi, cresceranno bamboccioni dipendenti e incapaci di staccarsi. Sulla base di questa ideologia, tenere in braccio il bambino è viziarlo, come rispondere prontamente al pianto; allattare per più di 6 mesi attira espressioni di disgusto; concedere al piccolo di dormire nel lettone poi sancisce definitivamente la iattura di figli incollati a mamma e papà.
Tutto questo è ben confutato da studi scientifici che mostrano come l’autonomia del giovane e dell’adulto derivi da una lunga fase di dipendenza efficace, poiché prendersi cura in modo sensibile e responsivo dei bisogni del piccolo (Winnicott), senza dannosi differimenti, genera quella fiducia di base che accompagnerà l’essere umano per tutta la vita. Allo stesso modo è generativo di serenità, sicurezza e benessere un intenso contatto fisico, fatto non solo di tecniche corporee come il massaggio ma di uno stare insieme quotidiano fatto di tocchi, carezze e il tradizionale tenere in braccio (alla radice del “sostegno” morale), che risulta un attivatore straordinario di capacità cognitive, come mostrano gli studi del Touch Institute di Miami. Il co-sleeping invece, come mostrano le belle ricerche di J. McKenna in USA e M.L Tortorella e A. Moschetti in Italia, è una delle pratiche più benefiche, oltre che un piacere senza paragoni, sia per i bambini che per i genitori. Bisogna solo smetterla di pensare a cronometrare mesi o anni: non succederà nulla se i nostri figli continueranno a dormire con noi, non c’è niente di più naturale e non c’è alcuna fretta di spostarli di qualche metro, dietro una parete divisoria. La sicurezza di cui beneficeranno con questa esperienza di caldo benessere con le persone che amano di più e da cui vengono amati di più (insieme a una quotidianità educativa coerente) li porterà senza traumi a scegliere il proprio letto e la propria stanza quando si sentiranno pronti. E questo avverrà, come accade in tutte le specie, non c’è da temere.
Queste acquisizioni, corroborate dalla ricerca scientifica, corrispondono al vissuto spontaneo di molti genitori, che però subiscono pressioni sociali per adottare comportamenti opposti. Perché? Ritengo che abbia ragione Grazia Honnegger Fresco, allieva di Maria Montessori, quando dice che “sarebbe la rottura dell’equilibrio iniziale – quella separazione violenta madre/bambino fin dai primi istanti di vita, poi ripetuta a più riprese sotto varie forme – a produrre individui sradicati, ansiosi, insaziabili, dipendenti, aggressivi quali noi siamo”[4]. È la stessa ideologia della violenza che accompagna la nascita a proseguire con una “devastazione dell’infanzia” funzionale a un modo di vivere umano, che è tuttora guerresco e che oggi si coniuga con le manipolazioni del mercato. A chi, se non a un sistema economico aggressivo e onnivoro, giova che vengano allevati nuovi consumatori che hanno inscritto dentro il proprio dna il senso dell’inappagabilità, dell’insaziabilità, della ricerca inquieta di qualcosa che riempia un vuoto che solo una ricca e felice relazione primaria, insieme alle relazioni successive, può riempire? L’abominevole odissea, “il supplizio, il calvario, il massacro di un innocente che non sa parlare” di cui parlava Leboyer a proposito della nascita continua per tutta l’infanzia, viene sancita da un sistema di istruzione fondato sulla competitività e la prestazione e trova il suo compimento nel mondo del lavoro: di tutto questo “i segni sono ovunque: nella pelle, nelle ossa, nel ventre, nella schiena; nella pazzia, nelle nostre pazzie, le nostre torture, le nostre prigioni” [5].
Allora la domanda è: è ancora sostenibile questa visione antropologica, che, mentre dichiara l’importanza dell’educazione alla pace, alleva bambini ancora con la violenza, una violenza molto più sottile e invisibile di quella delle mani, ma altrettanto efficace? Forse siamo giunti a un punto di non ritorno, nel quale l’ideologia del dominio umano sul creato e sugli altri umani coincide con l’autodistruzione e diventa urgente un cambiamento di mentalità che parta dal basso, dalle donne che mettono al mondo, dagli uomini che le accompagnano e da tutti quelli che li possono supportare in un amore concreto verso i loro figli.
Per una nascita senza violenza, c’è bisogno di tornare alla discreta penombra che spenga i neon e torni ad ascoltare il battito della vita nascente, senza rinunciare ai vantaggi che la scienza ha portato, ma anche raccogliendo dallo stesso mondo (Odent è scienziato e ostetrico) la sollecitazione a imparare dagli altri mammiferi, a riannodare il legame con il resto del mondo vivente, suturando la ferita secolare tra umani e non umani, tra corpo e anima. C’è bisogno di donne forti, consapevoli della propria capacità di dare alla luce senza bisogno d’altro che di quiete e silenzio, e di uomini che le sostengano. C’è bisogno di genitori che “si tengano stretti” davvero i loro figli, stretti al seno per nutrirli, tra le braccia per far loro scoprire il mondo dalla giusta altezza, abbracciati a sé di notte.
Chiediamoci allora: questi bambini, cullati da un pancione accogliente, nati nel segno della tenerezza, amati dalle mani dei loro genitori, sostenuti, difesi dai “mostri” notturni nel modo più efficace, questi bambini gioiosi e sereni, potranno davvero scegliere domani di imbracciare un fucile e sparare contro un altro essere? La risposta è ancora molto sovversiva.
[1]A. Prentice e T. Lind, “Fetal heart rate monitoring durin the labour. Too frequent intervention, too little benefit”, Lancet, 1987, n. 330, pp. 1375-1377.
[2] M. Odent, L’agricoltore e il ginecologo, L’industrializzazione della nascita (2002), Il Leone verde, Torino 2006.
[3] I. M. Gaskin, La gioia del parto, Bonomi, Pavia 2004.
[4] G. Honnegger Fresco, prefazione a J. Liedoff, Il concetto del continuum. Ritrovare il ben-essere perduto, La Meridiana, Molfetta 1993, p.9.
[5] F. Leboyer, Per una nascita senza violenza, Bompiani, Milano 1975, p.43.