La violenza educativa è un fenomeno naturale? Parte prima - dalla Preistoria al Cristianesimo
Dato che le gatte danno a volte dei colpi di zampa ai loro gattini, alcuni ne concludono che il fatto di picchiare i bambini è naturale. Ma anche se si ammette questo paragone, c’è molta differenza fra un colpo di zampa e un colpo di bastone, che è la punizione più usata in tutto il mondo.
E lo stesso colpo di zampa non è in uso tra gli animali a noi più prossimi. Così, fra i bonobo, specie di scimmie considerata tra le più vicine all’uomo, le madri non “puniscono” i loro piccoli. Semplicemente, li allontanano da un eventuale pericolo. Allo stesso modo, esse non conoscono il gesto di colpire col palmo della mano. “Non abbiamo mai visto una femmina di scimmia in libertà maltrattare deliberatamente il suo piccolo”, scrive la primatologa e antropologa Sarah Blaffer Hrdy. Se certe femmine maltrattano i loro piccoli, ignorandoli piuttosto che picchiandoli, è apparentemente, quasi sempre, perché loro stesse sono state a loro volta abbandonate o ignorate durante l’infanzia. Il solo caso in cui le madri intervengono violentemente contro i loro piccoli, è quando questi, divenuti adolescenti, quasi adulti, importunano i loro fratelli più giovani.
Picchiare i bambini, dunque, non ha probabilmente niente di istintivo. E’ un comportamento umano, culturale, acquisito per imitazione. Il maltrattamento non può essere considerato come un comportamento bestiale. Ciò che abbiamo in noi di animale non lo è per niente. Nessuno dei nostri comportamenti innati ci prepara a picchiare i nostri bambini, e niente nei comportamenti innati dei bambini li prepara ad essere picchiati da coloro che costituiscono al loro sicurezza di base. I primi colpi dati dai genitori al figlio sono probabilmente per lui una “pugnalata” ben più grave nel legame di fiducia che lo unisce ai genitori rispetto a quanto non sia una infedeltà tra due coniugi.
Quanto alle società umane senza scrittura, i rari studi degli etnologi sui bambini mostrano che alcune tribù di cacciatori-raccoglitori praticano le punizioni corporali, altre no. E Margaret Mead, che ha avuto l’occasione di paragonare due società di cui una educava i bambini con violenza e l’altra con dolcezza, ha potuto constatare che la seconda era più pacifica della prima.
Si può quindi supporre che, così come il comportamento degli uomini preistorici è stato molto vicino a quello delle grandi scimmie, essi non abbiano picchiato i loro piccoli più di quanto non facciano le scimmie bonobo. Ma più le società umane si sono evolute e hanno adottato dei comportamenti lontani da quelli innati (forse, in particolare, nel momento del passaggio all’agricoltura), più gli uomini sono stati portati a imporre degli obblighi ai bambini, anzi delle prove dolorose (riti di iniziazione crudeli, riti sacrificali) ai quali evidentemente i comportamenti biologici programmati non li avevano preparati. I genitori hanno dovuto imporre la forza e la violenza per far cedere la resistenza dei bambini.
E’ possibile anche che il passaggio alla sedentarietà e all’agricoltura abbia avvicinato in modo considerevole le nascite, le pappe di cereali e il latte degli animali domestici permettevano degli svezzamenti precoci. Sarah Blaffer Hrdy così scrive: “Una vita sedentaria e cibo in abbondanza hanno fatto saltare i vincoli che per dieci milioni di anni avevano protetto i primati antropoidi contro le nascite troppo precoci”. Mentre si suppone che le nascite tra i preominidi e tra i primi uomini dovessero essere distanziate di quattro o cinque anni, nelle società sedentarie le stessa nascite hanno potuto essere distanziate di soli due o tre anni. Questo cambiamento di ritmo, che è stato osservato nel corso del XX secolo in certe tribù di cacciatori-raccoglitori sedentarizzati, ha potuto rendere aggressivo l’atteggiamento dei primogeniti, ancora molto dipendenti dalla propria madre, riguardo ai nuovi nati che la monopolizzavano. Dall’altro lato, l’ormone dell’allattamento, la prolattina, ha per effetto secondario di rendere le madri estremamente sensibili alla minima aggressione nei confronti del loro lattante. Non è impossibile che tale riflesso di difesa, rispondente a qualsiasi manifestazione di gelosia dei figli più grandi, sia diventato un’usanza considerata come necessaria per l’educazione. In un secondo tempo, i bambini che avevano subito questo trattamento hanno potuto ripeterlo per semplice compulsione di ripetizione sui loro stessi figli. Il ciclo della violenza “educativa” si trovava così programmato in modo comportamentale, nel corso della sua educazione, nel cervello stesso di tutti i bambini che ne erano stati vittime. Inoltre questo comportamento è stato teorizzato sotto forma di proverbi che hanno attraversato i secoli e i millenni. La violenza educativa è diventata così parte integrante della cultura.
Ciò che è sicuro, è che a partire dalle civiltà più antiche di cui si possano avere delle testimonianze scritte, la pratica della violenza educativa è divenuta universale. Sembra non esserci alcuna eccezione: dai Sumeri (di cui ci è giunta una tavoletta danneggiata che ricorda un bambino picchiato dal suo maestro) all’Egitto (“Le orecchie del bambino sono sul suo dorso [della mano]”, dice una “Saggia” egiziana) e alla Cina (“Se ami tuo figlio, dagli le botte, se non lo ami, dagli degli dolci”), dall’India antica all’America precolombiana, da Atene a Roma, i bambini sono stati picchiati. E la scrittura è giunta a dare ancor più forza e prestigio ai proverbi che raccomandano la violenza.
Quelli che hanno avuto ancora più influenza, perché sono stati attribuiti ad un’ispirazione divina, sono i proverbi biblici. Quattro di essi si trovano nel libro dei Proverbi, tradizionalmente attribuito a re Salomone, ma probabilmente redatti tra il decimo e il quinto secolo avanti Cristo:
- “Chi non usa il bastone non ama suo figlio, ma chi l’ama si affretta a rimproverarlo” (13,24);
- “Correggi tuo figlio finché c’è speranza, ma non arrabbiarti fino ad ammazzarlo” (19,18);
- “La follia è radicata nel cuore dei bambini, ma una severa educazione può strapparla.” (22,15);
- “Non temere di educare un ragazzo con severità; anche se lo batti con il bastone, non morirà” (23,13).
Altri due proverbi si trovano nel libro più recente del Siracide [erroneamente indicato come Ecclesiaste nel testo francese]:
- “Chi vuol bene a suo figlio spesso dovrà essere severo con lui, ma alla fine potrà essere contento” (30,1);
- “Tienilo alle strette fin da piccolo, se no diventa testardo e non ti ubbidirà più” (30,12).
In questi proverbi, il castigo corporale non viene presentato come solo la punizione di uno sbaglio, ma come una necessità in sé per una buona educazione. Si ritiene così di prevenire la ribellione e assicurare al padre che suo figlio si occuperà di lui più tardi. Inoltre la violenza educativa è associata a una concezione pessimistica del bambino, che porterà la follia “ancorata” nel suo cuore.
Bisogna aggiungere a questi proverbi un passaggio del deuteronomio, che aggiunge puramente e semplicemente di far lapidare dai propri concittadini un figlio ribelle, debosciato e ubriacone, e un altro passaggio che esige la stessa sorte per una ragazza che abbia perduto la sua verginità.
Questo quadruplo suggellamento (volontà di costringere il bambino o di impedirgli di aggredire un fratello neonato, compulsione di ripetizione, cultura orale e scritta, sacralizzazione) spiega che la violenza educativa è stata resa irradicabile per dei millenni, benché non sia un comportamento innato e sia invece un comportamento dannoso.
Civiltà greca e civiltà latina
Platone (427-347 a.C.) e Aristotele (364-322 a.C.) testimoniano l’utilizzo delle punizioni corporali in Grecia nei confronti dei bambini. “Se il bambino obbedisce, è bene; altrimenti, egli viene raddrizzato con delle minacce e con dei colpi come un pezzo di legno”. Ma Platone ha sviluppato nello stesso tempo o in seguito due opinioni contrarie sulle punizioni. Ne La Repubblica, in cui presenta una società ideale, scrive: “Formate i vostri figli ei loro studi non con la costrizione, ma con i giochi, e potrete meglio osservare i loro risultati naturali”. Diversamente, ne Le Leggi, sviluppa un’idea contraria: “Di tutti gli animali il bambino è il più incontrollabile poiché la fonte della regione in lui non è ancora regolata; egli è il più ribelle degli animali. Così dev’essere legato da molte briglie; in primo luogo quando lascia le mani della madre e della nutrice, dev’essere controllato dagli insegnanti, poco importa cosa insegnino, e dagli studi. Ma è anche uno schiavo e a tal riguardo qualunque cittadino d’onore che attraversi il suo cammino lo può punire, che sia il suo professore privato o il suo istruttore, se fa qualcosa di sconveniente”.
Aristotele (384-322 a.C.) pensa che l’educazione debba essere “accompagnata da dolore” e che il bambino che tiene un comportamento indesiderabile dev’essere “disonorato e picchiato”.
Un personaggio di una commedia di Menandro (IV secolo a.C.) afferma: “Chi non è stato ben picchiato non è stato ben allevato”, formula che sembra essere proprio un proverbio.
Quanto all’educazione spartana, Plutarco (46-120 d.C.), nella sua Vita di Licurgo, scrive che i bambini sorpresi a rubare sono “picchiati senza pietà” e testimonia aver visto lui stesso dei giovani picchiati a morte ai piedi dell’altare di Diana. Si sa inoltre che a Sparta i maestri non esitavano ad impiegare una bacchetta di ferro come ausilio pedagogico.
A Roma il padre (pater familias) aveva su tutta la sua famiglia, cioè sulla moglie, i figli, gli schiavi, diritto d’autorità giudiziaria. Poteva quindi, e ance doveva, se necessario, punirli, imprigionarli, venderli, condannarli ai lavori forzati e anche giustiziarli. Tale diritto era limitato, secondo Fustel de Coulanges [storico francese del XIX secolo], solo dalle regole della religione familiare.
Quanto ai pedagogisti, che erano spesso degli schiavi nella Roma dell’Impero, in un sistema di insegnamento che faceva di essi i rifiuti della società, essi sottoponevano i bambini, dai sette ai tredici anni per le femmine, e dai sette ai quindici anni per i maschi, a violente punizioni. Gli scrittori latini Plauto, Orazio, Giovenale, Marziale testimoniano inoltre l’impiego della scutica, specie di martinetto, della ferula, paletta di legno o di cuoio, del flagellum, frusta a una o più cinghie a volte coperte di ossicini, della virga, bastoncino o fascio di bastoncini a volte spinosi. Orazio ricorda la sua giovinezza rovinata dal suo precettore Orbilio, che gli fece subire ogni sorta di sevizie. Da cui il termine di orbilianismo usato più tardi per evocare l’uso delle punizioni corporali. A Pompei, una rovina mostra una scena di flagellazione di un allievo recalcitrante: un adolescente nudo issato sul dorso d’un compagno, immobilizzato da un altro, sotto l’occhio indifferente dei condiscepoli.
Sembra quindi siano stati altri due autori, uno greco ed uno latino, a criticare le punizioni corporali per la prima volta. Quintiliano (30-100) ha denunciato queste punizioni: “Il dolore e la paura fanno fare ai bambini delle cose che onestamente non si saprebbe riferire e che, presto, li coprono di vergogna. E’ ancora peggio se si è trascurato di assicurarsi sui modi dei sorveglianti e dei maestri. Non oso raccontare le infamie alle quali degli uomini abominevoli si lasciano abbassare nel loro diritto di correzione manuale […]” Sembra che Quintiliano evochi qui, sotto l’allusione alle “cose che non si saprebbe onestamente riferire” il fatto che, sotto l’effetto della paura e della violenza, non è raro che gli sfinteri si rilascino e che il bambino urini e defechi. Quanto alle “infamie” commesse dai maestri, è probabile che si tratti di abusi sessuali. Per Quintiliano, la pena corporale è un disonore, un affronto, una punizione adatta solo per gli schiavi. Anziché correggere il bambino, lo inasprisce, e rende necessario, per correggerlo una volta diventato adolescente, delle punizioni ancora peggiori.
L’autore greco Plutarco, all’incirca nello stesso periodo (46-120), denuncia ugualmente le punizioni corporali nell’educazione per gli stessi motivi di Quintiliano. Non evoca il dolore fisico, quanto piuttosto l’indegnità di una punizione propria degli schiavi. Raccomanda l’elogio piuttosto che la repressione. E, nella sua Vita di Catone, fa l’elogio di Catone che preferisce insegnare lui stesso a leggere a suo figlio piuttosto che correre il rischio di vedere lo schiavo incaricato di educarlo tirargli le orecchie (Plutarco, Vite di uomini illustri). Ma ignoriamo del tutto se Quintiliano e Plutarco abbiano avuto la benché minima influenza sugli educatori dell’antichità.
Cristianesimo e punizioni corporali
Nonostante tutte le parole di Gesù che presenta i bambini come modelli (“Il regno dei cieli assomiglia a loro”; “Se non cambiate e non diventate come bambini, non entrerete nel regno dei cieli”) e che insista sull’amore e il rispetto dovuto ai bambini (colui che scandalizza uno di questi piccoli “sarebbe più conveniente per lui che lo buttassero in fondo al mare, con una grossa pietra legata al collo”), malgrado la similitudine che egli stabilisce tra i bambini e sé stesso (“Nella misura in cui l’avete fatto a uno di questi miei piccoli fratelli, è a me che l’avete fatto”), nonostante tutti i suoi propositi sul perdono e la reciprocità (”perdonare fino a settantasette volte sette”, “non fare agli altri ciò che non si vorrebbe venisse fatto a noi”. “Tutto ciò che voi desiderate gli uomini facciano per voi, fatelo voi stessi per loro”), malgrado infine la parabola del figliol prodigo in cui si vede il padre non fare nessun rimprovero al figlio che ha dilapidato l’eredità, accoglierlo con gioia e organizzare un banchetto per festeggiare il suo ritorno, bisogna constatare che questa attitudine nuova riguardo i bambini non sembra essere stata affatto messa in pratica nella cristianità. Viceversa, le scuole cristiane sono stati luoghi in cui i bambini sono stati picchiati in modo spaventoso.
La ragione per cui le parole di Gesù sui bambini non hanno minimamente cambiato il modo in cui li si educava è probabilmente molto semplice. I discepoli di Gesù erano stati educati come tutti i bambini, a colpi di bastone. Ora, quando si è stati allevati in tal modo, è molto difficile rimettere in questione questo sistema di educazione, perché lo si è visto praticare dai propri genitori che, nell’animo del bambino, non potevano sbagliarsi. Inoltre, tutti i bambini venivano allevati così nella Bibbia, la parola di Dio lo raccomandava. Dunque, niente doveva né poteva cambiare.
Una descrizione sorprendente viene data da Sant’Agostino (354-430), uno dei Padri della Chiesa più influenti. Nel primo capitolo delle sue Confessioni, ricorda le pene corporali che ha subito a scuola e le derisioni dei suoi genitori quando se ne lamentava. Ma egli considera che queste punizioni gli sono state in definitiva benefiche, poiché la scuola gli ha permesso di incontrare Dio. Si oppone, sempre nello stesso capitolo, all’idea che traspare nei Vangeli che i bambini possano essere innocenti. Gesù, da parte sua, non ha certamente voluto parlare della loro innocenza ma solo della loro umiltà. E nello stesso capitolo, Sant’Agostino inventa l’idea del peccato originale (“così piccolo e già così grande peccatore!” – dice parlando dei lattanti), idea che è servita in seguito, associata ai proverbi biblici, come giustificazione supplementare alle punizioni corporali.