Infanzia: punizioni corporali
“E’ prevedibile che un bambino, quando è indotto a credere che umiliazioni e torture sono finalizzate al suo bene, ne rimanga convinto per tutta la vita.
Di conseguenza maltratterà a sua volta i propri figli, certo di compiere un’opera meritoria. Ma che fine faranno la rabbia, il furore, il dolore che ha dovuto soffocare da piccolo quando i genitori lo picchiavano intimandogli di credere che quel trattamento fosse per il suo bene?
Mi sembra sempre più evidente che il male si ricrea sempre di nuovo, in ogni nuova generazione. Il neonato è innocente. Quali che siano le sue predisposizioni, il neonato non avverte alcuna spinta a distruggere la vita: vuole soltanto essere accudito, protetto ed amato, nonché amare a sua volta. Se questi suoi bisogni non sono soddisfatti, se il piccolo è maltrattato, qualcosa va storto. Soltanto se all’inizio della vita l’animo è sottoposto a tortura, la persona si sente spinta a distruggere. Il bambino cresciuto nell’amore e nella considerazione non è motivato a fare la guerra.
Dopo aver ripercorso innumerevoli storie di vita, ho scoperto che in tutti i casi in cui la vittima non si è trasformata essa stessa in carnefice, vi è stata una persona che ha nutrito affetto per quel bambino, consentendogli di percepire l’ingiustizia subita per ciò che essa realmente era. Un esempio famoso lo offre Dostoevskij: il padre fu con lui brutale, ma la madre è descritta come estremamente amorevole.
Ma dove una simile persona è assente, dove manca ogni alternativa alla crudeltà, dove nessuno conferma la giusta percezione del bambino, ossia che gli viene fatto del male, il piccolo corre il grave pericolo di convincersi che il tormento subito gli viene inflitto per il suo bene.
Di conseguenza lo infliggerà a sua volta ad altri esseri umani, senza avvertire alcun barlume di cattiva coscienza.”