Come ho capito che le botte sono inutili

Di questa pietra miliare del mio percorso genitoriale e umano, il momento in cui ho capito che davvero le botte sono inutili, devo ringraziare i cavalli e un addestratore sudamericano. Vi racconto come è successo che un bel giorno alcune convinzioni che avevo considerato solidissime si sono sciolte come neve al sole, ed una prospettiva immensamente più interessante mi si è aperta davanti.

Ricordo che in famiglia (nella mia famiglia di provenienza) ci siamo sempre (tutti!) fatti delle gran risate quando c'erano notizie di giudici che condannavano i genitori per uno schiaffo dato al figlio, e trovavamo ridicolo che alcuni Stati lo proibissero esplicitamente per legge. Che esagerazione, si diceva, e come si può fare senza?!

Se nella propria infanzia si sono subite punizioni fisiche, da adulti si accetta come normale questo modo di operare. E siccome lo si accetta come normale, lo si considera diverso dalla violenza sui bambini, della quale si prova normalmente orrore come tutti gli altri. E' incredibile come si riesca a mantenere le due cose distinte nella propria mente, benché razionalmente non si possa stabilire una vera differenza. Eppure ci si dice che la differenza c'è, eccome, e quando qualcuno lo mette in dubbio si diventa quasi insofferenti.

"Quanno ce vo' ce vo' ", si dice a Roma. E ciascuno ha in mente un campionario più o meno ristretto di casi in cui "ce vo' ", che includono sempre il classico esempio del "e se si butta in mezzo alla strada?", che mette sempre tutti d'accordo. E si fanno sempre dei gran sofismi sul tipo di colpo ammesso o no, lo schiaffo piuttosto che la sculacciata o il famigerato "schiaffetto sulla manina".

Sono capitata per caso in una discussione sulla lista di yahoo nonsoloneonati che trattava proprio di questo. Sono intervenuta come altri a difesa della occasionale punizione, della serie "si dovrebbe evitare finché si può, ma se non si può altrimenti..." E sono rimasta molto meravigliata quando ho visto come alcuni utenti fossero profondamente scandalizzati da affermazioni di questo tipo. Non capivo perché scaldarsi tanto per "uno schiaffetto sulla manina", lo trovavo un atteggiamento piuttosto fanatico, idealista. Del resto, non si può equiparare lo schiaffo alla violenza no? No? No! Eppure, non riuscivo a trovare argomentazioni convincenti per sostenere questa tesi. Era come un dogma, come se uno dicesse ad un cattolico "ma come fa Dio ad essere uno e trino?". Nella discussione sono state tirate in ballo le teorie di Alice Miller, che spiega come i bimbi picchiati rimuovano le sensazioni negative e siano addirittura riconoscenti per le punizioni ricevute, adottandole entusiasticamente da genitori sui propri figli. La mano pietosa di Vito mi ha inviato alcuni scritti della Miller, abbastanza corposi però da essere messi da parte in attesa di essere letti per bene. Sì, la rimozione, ok, ma figurati, cosa vuoi che abbia rimosso io?

Poi ho riflettuto su una bella esperienza fatta all'inizio della mia gravidanza. Sono appassionata di equitazione, e da qualche tempo frequentando forum tematici avevo preso coscienza di quante idiozie vengano insegnate nei maneggi, non solo riguardo la correttezza dello stile nel montare, ma anche riguardo l'addestramento e il rapporto con il cavallo. Il tipico istruttore ti insegna che il cavallo è pigro, sfaticato, e se non "ti fai sentire" "ti prende la mano". Ci si fa sentire in genere col frustino, o col tallone (dotato o meno di speroni), ma anche tirando malamente le briglie. "Tanto mica lo sente", ti dicono. Però la pelle del cavallo è talmente sensibile che sente perfino se si posa una mosca, e freme; questo in genere non te lo fa notare nessuno. Però vi sono addestratori (purtroppo una minoranza) che domano i cavalli senza la minima violenza, utilizzando l'etologia equina per comunicare col cavallo "nella sua stessa lingua". I cosiddetti "sussurratori", per intenderci con un termine che il cinema ha reso famoso. Avevo letto molto sui vari metodi e scuole di "doma naturale". Letto, ma non visto.

E all'inizio della mia gravidanza, quando ancora non mi ero rassegnata a tenere il piede a terra, nel maneggio che frequentavo è capitato uno di questi strani personaggi. Non uno di quelli famosi, che si muovono solo per costosi stage e vendono libri e DVD con "metodi" più o meno codificati. Un ometto di poche parole, sudamericano trapiantato in Italia, chiamato a risolvere il caso di una giovane cavalla "impossibile", "pericolosa" che aveva buttato a terra persino l'istruttore. Quello che gli ho visto fare, quello che gli ho sentito dire, è stato affascinante. Lui al centro del tondino, tranquillo, calmo, concentrato, e la cavalla che girava in tondo con tutta la sua rabbia accumulata in chissà quali esperienze.

Non vi sto a raccontare i dettagli equestri, fatto sta che ad un certo punto mi è tornata in mente questa esperienza, ed ho pensato: ma se è possibile addestrare un cavallo (animale di specie completamente diversa dalla nostra) a portare uomini in sella (cioè a fare una cosa completamente aliena dalla sua natura) senza violenza, perché mai dovrebbe essere necessario picchiare un bambino, il proprio figlio (sangue del nostro sangue), per "insegnargli" a essere un uomo (cioè quello che porta scritto nel DNA)? E soprattutto ho riflettuto su questo: perché ho accettato senza alcuna difficoltà l'idea che si possa domare un cavallo senza violenza, ma non riesco ad accettare l'idea di crescere un figlio senza violenza? L'unica spiegazione è quella che dà la Miller: la violenza che ho subìto ha lasciato tracce che sono state rimosse dalla coscienza, per lasciare solo un automatismo profondo, una "coazione a ripetere".

Ed ho ricordato anche una frase dell'addestratore, che ad un certo punto ha proprio fatto il paragone: "i cavalli sono come bambini piccoli, ci vuole pazienza, come fai ad arrabbiarti con un bambino piccolo?" Era chiaro che per lui era inconcepibile l'idea di arrabbiarsi con un bambino piccolo; non so se i suoi spettatori (me compresa) avessero davvero capito il concetto...

I cavalli e il loro amico sudamericano mi hanno insegnato la differenza fra autorevolezza e autoritarismo. Da lì in poi la strada (mentale) è stata in discesa: non mi ci è voluto molto per assimilare il concetto che non solo le punizioni corporali, ma le punizioni tout court, sono nel migliore dei casi inutili, che l'empatia e la comunicazione sono la strada da seguire, con tutti gli esseri viventi con cui vogliamo entrare in relazione, ed in primis con i nostri figli.

La diffusione di una cultura pro-punizione è come la diffusione di una pessima cultura equestre, che purtroppo dilagano entrambe proprio nel Paese di Caprilli e della Montessori, che entrambi fra fine '800 e inizio '900 cercarono di diffondere idee di rispetto, l'uno per l'equitazione naturale e l'altra per l'educazione dei bambini.

Nemo propheta in patria...

Silvia